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REVIEWSLE RECENSIONI
25/09/2020
Bob Mould
Blue Hearts
A un anno e mezzo dal solare “Sunshine Rock”, Bob Mould torna con “Blue Hearts”, un album pieno di canzoni furiose e velocissime, nel quale l’ex Hüsker Dü pesca a piene mani dal sound della sua vecchia band per raccontarci come questo 2020 non sia poi tanto diverso dal per nulla paradisiaco 1984.

Per anni, film e serie televisive ci hanno raccontato gli anni Ottanta come una sorta di paradiso perduto. Ma se è indubbio che quel decennio sia stato artisticamente fertile almeno quanto i più blasonati anni Sessanta, è altrettanto vero che, da un punto di vista politico e sociale, sia stato un periodo quanto meno contraddittorio. Già, perché per ogni serie come Stranger Things, che ci ricorda quanto è stata bella e spensierata l’infanzia, trascorsa tra un romanzo di Stephen King e un film di Steven Spielberg, ben pochi si ricordano che a capo dei due paesi culturalmente ed economicamente più influenti c’erano Ronald Reagan e Margaret Thatcher, due leader senza dubbio conservatori.

In un certo senso, il nuovo album di Bob Mould, Blue Hearts, parte proprio da qui. L’ex Hüsker Dü, infatti, si è reso conto che, sotto molti punti di vista, esistono molteplici parallelismi tra questo 2020 e il 1984, entrambi anni elettorali che vedono al centro della campagna due leader – oggi Trump, ieri Reagan – telegenici, carismatici ed eterodiretti dai fondamentalisti cristiani, uno che scientemente ignora un’epidemia (l’Hiv/Aids nel caso di Regan) e l’altro che mente apertamente a riguardo di una pandemia (il Covid-19 nel caso di Trump). E dal momento che gli anni Ottanta Bob Mould se li ricorda perfettamente, sia per averli vissuti da protagonista con i suoi Hüsker Dü, girando l’America in lungo e in largo, sia per aver provato sulla propria pelle (nonostante all’epoca non si fosse ancora dichiarato apertamente gay) l’ostracismo dell’intera classe dirigente, incluso l’inquilino della Casa Bianca, quasi contenta che un’epidemia uccidesse un’intera generazione, ha percepito subito uno sgradevole senso di déjà-vu e non se l’è sentita di restare in silenzio.

Prodotto dallo stesso Mould e registrato a Chicago nei leggendari Electrical Audio di Steve Albini, Blue Hearts vede l’ex Hüsker Dü ancora una volta affiancato dai fedelissimi Jason Narducy (basso) e Jon Wurster (batteria) dei Superchunk, ormai alla quinta collaborazione consecutiva. Ma se il precedente Suinshine Rock era un album solare e risolto, nel quale Mould si lasciava alle spalle un periodo personalmente difficile per abbracciare un Power Pop a tratti volutamente spensierato, questo Blue Hearts segue un percorso diametralmente opposto, rivelando fin da subito un’urgenza e un’immediatezza inedite nella discografia solista dell’ex Hüsker Dü, andando a richiamare volutamente la furia sonora della gloriosa band di Saint Paul, Minnesota.

Dopo la delicata introduzione acustica di “Heart on My Sleeve”, nella quale Mould descrive le devastazioni portate dal cambiamento climatico, l’album cambia subito passo con una serie di canzoni velocissime e furiose, quasi Hardcore Punk, come “Next Generation”, “Fireball”, “Siberian Butterfly” e il primo singolo “American Crisis” (scritto inizialmente per Sunshine Rock ma ritenuto “troppo pesante” per quel disco), nelle quali Bob riversa tutte le sue preoccupazioni a proposito della situazione politica del suo paese. Ovviamente non mancano i pezzi dove i bpm scendono e le tematiche si fanno più autobiografiche, come “Forecast of Rain”, “Everyth!ng to You”, “Leather Dreams” e la conclusiva “The Oceans”, le ultime due composte nel corso di una seduta di scrittura di tre giorni avvenuta poco prima dell’inizio del suo Solo Electric Tour, svoltosi tra la metà di gennaio e i primi giorni di febbraio di quest’anno.

Nonostante la tracklist del disco elenchi un totale di 14 canzoni, con i suoi 32 minuti di durata Blue Hearts è l’album più breve della discografia di Bob Mould. Sintomo di una certa urgenza comunicativa, della volontà di eliminare ancora di più ogni tipo di orpello, per arrivare al succo del messaggio, da veicolare con ritornelli potenti e un sound il più possibile aggressivo e diretto. Una necessità, questa, dettata dai tempi difficili che stiamo vivendo. «Non avrei mai pensato di rivedere queste stronzate», canta l’ex Hüsker Dü in “American Crisis” a proposito degli anni Ottanta. L’altra volta, trentacinque anni fa, Mould ritiene di non aver «fatto abbastanza». Oggi, però, con un paese sanitariamente ed economicamente in ginocchio e politicamente diviso come non mai, lo spirito è tutt’altro che remissivo: «questa volta non starò seduto in silenzio a preoccuparmi di alienarmi le simpatie di qualcuno».


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