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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
02/10/2023
Jeff Beck
Blow by Blow
Uno dei capisaldi del rock strumentale con sfumature jazz fusion, "Blow by Blow" è anche la dimostrazione della possibilità, per la chitarra, di sostituire la voce, il canto. Tutto è plausibile quando a suonarla è Jeff Beck.

La morte di Jeff Beck è ancora una ferita aperta per i fan. Il chitarrista inglese è sempre sembrato invincibile, immortale, dall’alto della sua grandezza: lo scorrere del tempo non lo aveva invecchiato come gli altri; i suoi occhi, il suo sorriso a metà tra l’ironico e il ruffiano, quasi un ghigno, non sentivano l’ingiuria, il peso degli anni trascorsi. Lui, la chitarra e una nuvola di borotalco immortalavano a ogni concerto quella sensazione di eternità cui si era abituati ascoltando le sue note ruggire e poi calmarsi, passando da un rock tosto alla musica classica senza nessuna barriera temporale. La notizia della sua scomparsa a gennaio ha frantumato quest’ultima speranza umana, che i giorni per lui fossero infiniti e potessimo sempre vederlo, imperturbabile, nascosto dietro ai suoi occhiali da sole, sapendo che nella sua testa c’era già un nuovo avvincente progetto musicale o un’auto hot rod, quelle sue speciali, da acquistare o riparare.

Innovazione, tecnica, creatività, sensibilità, grazia sono solo poche parole per tentare di descrivere quello che è stato (anzi è, visto che la sua musica non finirà mai di esistere) uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi. Parte della magia di Beck ha origine nella sua tecnica magistrale e mistificante. È uno dei pochi chitarristi rock a non utilizzare praticamente mai il plettro. Tutte le dita della mano destra entrano in gioco, non solo per pizzicare le corde, ma anche per manipolare il braccio vibrato e il controllo del volume della sua chitarra preferita, la Fender Stratocaster. La straordinaria combinazione tra la tecnica del braccio vibrato e i bending delle corde della mano sinistra ha fatto di Beck un maestro del fraseggio “legato” e della microtonalità, le altezze "tra le note" di una scala occidentale temperata. Ciò lo rende in grado di evocare i suoni della musica indiana, bulgara e di altre musiche del mondo in un modo speciale, e aggiunge una qualità misteriosamente unica a quest’attitudine di suonare rock diretto. Il senso dell'intonazione di Beck è più complesso e sottile di quello di una persona comune. Non usando il plettro, le dita della sua mano destra sono libere di spaziare sulla tastiera per eseguire manovre di tapping che hanno tutta la grazia dei passi di danza classica.

 

Blow by Blow, uno dei suoi capolavori uscito nel 1975, il primo vero disco solista dopo l’esperienza del Jeff Beck Group con Rod Stewart e Ronnie Wood, e del supergruppo insieme a Bogert & Appice rimane un punto di riferimento imprescindibile ancora a quasi cinquant’anni dalla sua realizzazione. Basta ascoltare i quattro pezzi autografi, o scritti con la collaborazione dei pregiati sessionman coinvolti nell’incisione dell’album per capire il livello di sperimentazione raggiunto. Così nell'iniziale "You Know What I Mean", il pungente assolo di Beck, basato sul blues, è pieno di forme fantasiose e salti audaci, mentre in "Air Blower" elaborati strati di chitarre d’accompagnamento e soliste trovano il loro posto nel mix. Spinto da una sezione ritmica indiavolata, composta dal propulsivo batterista Richard Bailey e dal bassista Phil Chenn, dalle linee solide come un macigno, il buon Jeff si fa strada senza frenarsi in "Scatterbrain", dove un vertiginoso riff di tastiera di Max Middleton spinge a un approccio più energico. “Costipated Duck” piace invece per il ritmo funky e la continua interazione tra il quartetto.

Proprio Middleton, nato inizialmente come pianista classico dalle elevate qualità compositive, è l’unico turnista già presente nella storia di Beck, legato al periodo del “Group”. In quest’opera il suo uso sapiente del Fender Rhodes, del clavinet e dei sintetizzatori analogici lascia un'impronta soul riscontrabile chiaramente in due degli apici del disco, le leggiadre cover di due brani di Stevie Wonder. Nella ballata "Cause We've Ended as Lovers", il Genio della sei corde fa uscire dalla sua chitarra sospiri e urla per una dolorosa dedica a Roy Buchanan, uno dei pionieri della Fender Telecaster da lui tanto ammirato e di cui era diventato amico.

 

Vi è un interessante retroscena riguardo a "Cause We've Ended as Lovers". Wonder scrive la canzone per sua moglie Syreeta, ma la offre a Jeff dopo che la Motown Records insiste perché Stevie registri lui stesso “Superstition”, un brano che in realtà aveva composto per Beck come ringraziamento per aver suonato nel suo album Talking Book del 1972. Destino vuole che a rendere il pezzo, dal mood romantico e nostalgico, uno dei marchi di fabbrica del chitarrista inglese sia nientepopodimeno che George Martin, presente in Blow by Blow nelle vesti di produttore, e chissà se c’è il suo zampino nella scelta di realizzare la cover di “She’s a Woman”! Il “quinto Beatle” figura pure in qualità di arrangiatore orchestrale e, grazie gli archi, dona un’atmosfera mistica e sognante ad alcune tracce dell’opera.

“Thelonius” è l’altro contributo di Stevie Wonder, una cavalcata con utilizzo del talk box tra il funk e il rhythm and blues e sembra sia suo il tocco al clavinet in sala d’incisione, pur non comparendo nei “credits” specifici nelle liner notes dell’album.

 

Blow by Blow è bilanciato da improvvisazioni aperte e da un'interazione nitida tra l’ensemble, evitando la pomposità che ha affossato gran parte della fusion jazz rock del periodo. E le ultime due composizioni presenti in scaletta ne sono palese dimostrazione. “Freeway Jam” è uno shuffle galoppante con fremiti di chitarra irraggiungibili da ogni essere umano e un “solo” di piano elettrico in dissolvenza, mentre “Diamond Dust” dipinge nuove traiettorie stilistiche nel suo esprimersi come accattivante rock arricchito da gustose sfumature jazz. Ideato da Bernie Holland, chitarrista degli Hummingbird, band collegata a Middleton, è un lungo brano ove si evidenzia un drumming complesso e fantasioso con roboanti assoli di tastiere, cambi di accordi impegnativi e sullo sfondo un tappeto d’archi, perfetto terreno per la vivacità di Beck.

La svolta strumentale di questo lavoro di successo, certificato da vendite e apprezzamento di critica e pubblico, convince l’ex membro degli Yardbirds a proseguire su questa strada. Wired dell’anno successivo e There & Back del 1980 continuano il percorso, anche se meno intensi. Gli anni scorrono veloci e l’artista nato a Londra vive di alti e bassi, ma Who Else (1999) e You Had It Coming (2000) contengono buoni spunti fino a un’altra vetta della carriera, Emotion & Commotion (2010) in cui non smette di stupire, con le performance vocali di Imelda May, Joss Stone e Olivia Safe, e un’orchestra di sessantaquattro elementi. Di recente sono da ricordare l’ultimo controverso 18, in partnership con Johnny Depp e un’attività live incredibile, in uno stato di forma eccezionale, niente che facesse presagire l’improvvisa morte a 78 anni per una terribile meningite batterica.

Tanti sono stati gli amici musicisti presenti allo struggente concerto tributo organizzato da Eric Clapton nel maggio 2023 a dimostrazione di quanta ammirazione e affetto ci fosse per quest’uomo indimenticabile che ha portato la chitarra a livelli inimmaginabili.

«Jeff ci ha lasciato, ma il suo ricordo e la sua musica vivranno per sempre». Eric Clapton

«Tutti noi amavamo Jeff Beck. E, parlando di chitarre, con lui non ce n’era per nessuno». John McLaughlin