Not Dark Yet, uscito nel 2017, segnava un importante capitolo nella carriera di Allison Moorer, perché era il primo disco composto e suonato in condominio con sua sorella maggiore Shelby Lynne, anch’essa songwriter e cantante country, con alle spalle un Grammy Award vinto nel 2001. Per la prima volta, la vita artistica delle due sorelle si intrecciava, dando vita a un disco catartico che in qualche modo attenuava il grande dolore che lega Allison e Shelby fin dalla più tenera età. Per gli appassionati di country la storia è nota: il 12 agosto 1986, il padre delle due sorelle, Vernon Franklin Moorer sparò e uccise la madre, Laura Lynn Smith Moorer, prima di rivolgere la pistola contro se stesso e togliersi a sua volta la vita.
Un giorno tragico, che ha segnato l’esistenza delle due cantanti e su cui ora Allison torna con un libro autobiografico (al momento pubblicato solo negli Stati Uniti) e con un album di dieci canzoni, entrambi intitolati Blood. L’occasione, dunque, per tornare a riflettere sulla propria infanzia, sui rapporti famigliari e su un fatto di sangue tanto raccapricciante e devastante quanto incomprensibile. La forza delle parole (il libro, ovviamente non lo abbiamo letto) e della musica, per cercare di indagare a fondo nella propria anima e analizzare quel trauma, ricostruire la verità, sconfiggere, o almeno attenuare, il dolore.
Un’operazione che già aveva fatto in passato con The Hardest Part (2000), che però nasceva come raccolta di canzoni con cui Allison cercava di guardare la tragedia attraverso gli occhi di sua madre. E non è un caso, quindi, che in Blood compaia Cold Cold Heart, asciutta ballata per chitarra e voce attraversata da improvvisi e taglienti fendenti di violino, che originariamente compariva come hidden track su quel disco, così lontano nel tempo. Un brano tormentato, che rievoca la notte della tragedia, riflette sull’ingiustizia della vita (“Una storia così triste, un mondo così triste”) e sull’infanzia che non tornerà mai più. Una canzone, questa, che rappresenta perfettamente il mood dell’album, composto prevalentemente da ballate tese, dolorose, nostalgiche, in cui la Moorer racconta la difficile vita in famiglia e il dramma di essere figlie in questo contesto di violenza domestica, dipingendo i suoi genitori come tragici antieroi consumati completamente da un amore malato e dalla loro incapacità di lasciarsi, nonostante tutto.
In Blood ogni sfumatura di emozione è presente (rabbia, mancanza, dolore), e le parole della Moorer, e il suo cantato così sofferto e appassionato, lasciano senza fiato per intensità.
Da un lato, c’è la volontà di lasciarsi tutto alle spalle e per converso l’impossibilità di dimenticare: “Non sopporto di vedere il sole splendere ancora una volta senza di lei”, canta Allison nella drammatica Set My Soul Free, ed è chiara la lotta interiore tra un’eredità insopportabile, un dolore che scorteccia l’anima e il desiderio di riemerge dall’abisso, di liberarsi una volta per tutte dai fantasmi. Un fantasma, quello del padre, che riemerge prepotente, nelle chitarre croccanti e nell’andamento rock di All I Wanted (Thanks Anyway), in cui la songwriter è ondivaga fra legittime recriminazioni (“tutto quello che volevo era il tuo amore”) e un abbrivio di compassione e di pacificazione (“Tutto quello che posso fare, e tutto ciò che conta ora, è che ti perdono. Ciò che conta ora è che mi perdoni”). Undicesimo album in carriera, Blood (prodotto da Kenny Greenberg) è un disco profondo e duro, che non cerca scorciatoie o metafore, ma guarda negli occhi la tragedia e le sue conseguenze, e proprio perché senza filtri e diretto, finisce per essere tanto doloroso quanto liberatorio, catartico.
Rivivere il trauma per cercare di liberarsene, cercare il buono, come l’amore per la sorella Shelby, per rielaborare il lutto. Così nella malinconica Nightlight, Allison rievoca i litigi serali tra i suoi genitori, la paura, la necessità di aggrapparsi alla sorella maggiore Shelby Lynne, in un abbraccio che trasmetta calore e amore (“tutto quello che sentiamo sono gli echi, aspettiamo di dire le nostre preghiere, anche se abbiamo paura”). Una sorellanza che Shelby concretizza firmando la struggente I’m the One To Blame: due sorelle che condividono la stessa storia, lo stesso trauma, lo stesso cuore, la stessa capacità di scrivere canzoni fragili e bellissime.
La chiosa del disco è lasciata ad altre due canzoni drammatiche e nostalgiche, che suggellano il percorso di rielaborazione intrapreso dalla Moorer a inizio album: da un lato, la title track, riflessione di rassegnata accettazione e consapevolezza, in cui la songwriter canta “ e non c'è bisogno di spiegare, ho il tuo sangue che mi scorre nelle vene”, e poi la conclusiva, pianistica, Heal (Guarire), uno sprone a se stessa per superare tutto, perché tutto resta inevitabilmente senza risposta ed è inutile combattere per comprendere ciò che è stato, e che non ha, e mai potrà avere, spiegazioni. Meglio accettarlo serenamente, come qualcosa che c’è, presente e immutabile nel tempo. Come il sangue, che scorre nelle vene e ci tiene in vita. Nonostante tutto.