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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
04/11/2019
Vetna
Blankets Pt. 2
“Blankets Pt. 2” è il nuovo singolo di Vetna, il solo-project con base a Torino di Lorenzo Chia. Registrato e mixato al Vacuum Studio di Bologna da Bruno Germano (Iosonouncane, Julie’s Haircut, Giuda e molti altri) e masterizzato al Saff Mastering di Chicago da Carl Saff, ci propone qualcosa di molto insolito rispetto all’attuale panorama italiano e non.

Alternative rock, techno e ambient degli anni ’90 sono solo alcuni degli ingredienti di un mix che coglie, nella sua eterogeneità, il soggettivismo e la liquidità dei nostri tempi. Avvalendosi di tantissimi mezzi digitali, Vetna ci (ri)porta in universo parallelo fatto di incertezze e antagonismi, luci e ombre. Facciamo allora due chiacchere con l’artista alla scoperta del suo impressionismo.

 “Blankets pt. 2” è il tuo primo singolo. Cosa ti ha spinto a registrare?

Innanzitutto, scrivo canzoni più che suonare: ho iniziato a scrivere testi, prima ancora di saper suonare, all’età di 13 anni. Durante l’adolescenza ho avuto un sacco di gruppi in cui arrivavo con canzoni mie e, in maniera molto egocentrica, dicevo alle persone cosa fare. Poi, dopo l’esperienza con un gruppo che ho fondato a Milano in triennale, ho realizzato che da solo, o con altre persone e un’impostazione diversa, avrei potuto fare di più. È stato poco prima di trasferirmi a Torino per la magistrale che ho avuto chiara l’idea di scrivere un disco da cima a fondo, da solo, prima ancora di sapere quale sarebbe stato il mio nome o quale sarebbe stata l’estetica del progetto. E la musica elettronica anni ’90 e 2000 è stata decisiva nella mia scelta. L’idea era anche di creare qualcosa di profondamente meticcio-rock, ma con un approccio elettronico. Una cosa molto da one man band, ma con l’idea di risultare all’ascolto come un gruppo intero. Tant’è vero che mi sarebbe piaciuto impostare questo progetto come un progetto indefinito: mi piaceva molto l’idea dei Massive Attack o dei Queens of Stone Age. Tu li identifichi con una o due persone, in realtà, ci son dentro tanti musicisti molto bravi che vanno e vengono.

La tua proposta musicale è di nicchia e, forse in Italia, non tra le più diffuse. La scelta del ‘meticcio’ è sicuramente audace e si riflette anche nell’accostamento dell’inglese all’italiano. Come hai gestito questi elementi, così diversi fra di loro?

In generale, l’idea che sta dietro alla mia musica è quella di strafare, ma con equilibrio: unire opposti ma tenendoli in piedi, anche in modo molto fragile. Certo, è difficile unire inglese e italiano, come lo è accostare parti più stoner ad altre ambient. Dal punto di vista lirico, la cosa che mi sembrava più intelligente per esprimere questa estetica eterogenea, poteva essere di usare l’inglese e l’italiano con le rispettive impostazioni: in italiano contenuti e stile saranno per forza diversi da quelli che mi verrebbero da esprimere in inglese. L’obiettivo che sta dietro è di mantenere una certa istintività, però riuscendo a imbrigliarla: molto spesso i testi spesso nascono come dei collages, alla fine parlo di temi ricorrenti ma in maniera fluida.

A questo proposito: nei tuoi testi è molto importante la dicotomia fra sogno e realtà che, spesso, si confondono. Come definiresti, quindi, il tuo immaginario e qual è il messaggio che vuoi comunicare con tali atmosfere?

Anche qui, istintività: temi molto diversi fra loro si fondono. Esperienze che mi hanno segnato, come mi sento nei confronti degli altri, tutto ciò lo ritrovi nelle stesse righe in cui ho costruito un discorso molto più “ambientale”. Io parlo tanto di quello stiamo vivendo a livello collettivo e a livello storico: il rapporto tra noi e tutto quello che ci rende sempre più distanti l’uno dall’altra. Sicuramente si parla tanto di tecnologia: si parla di pc e io ne sono fissato, sia nel bene che nel male, ma ci sono tanti aspetti che mi spaventano come i social media.

Nel disco torna spesso la Germania. Che rapporto hai con questa e in che modo ti ha influenzato?

A un certo punto sono andato in Erasmus per smettere di lavorare su quello che facevo da tanto tempo e ritrovare freschezza, magari fare roba nuova da riutilizzare nelle canzoni vecchie o nel disco. È stato un esperimento: vedere come potesse ispirarmi un posto completamente diverso. C’è una canzone nel singolo in uscita, “Berlin is calling”: nel titolo c’è una città tedesca perché l’impostazione è molto elettronica, krautrock, anche pesante, ed è un po’ il riflesso di quello che ascoltavo al tempo. Stavo a Marburgo e spesso mi capitava di andare a ballare a Francoforte. Si è trattato anche di una sfida con me stesso: unire la techno ma che non suonasse troppo techno, ma più rock.

Con una musica che, ancora una volta, non è solo elettronica, come ti trovi ad organizzare l’esperienza live? 

Eh, è un bel casino. Ho il piede in mille scarpe. Strizzo l’occhio ai club ma allo stesso tempo alla musica alternativa, come il grunge, il mio modello. È difficile perché mi trovo fuori contesto sia dove si fa un concerto che un dj set elettronico. Sarebbe stato ancora peggio, doversi inserire nel giro italiano, come ha sottolineato anche Bruno Germano, per il fatto che un bel 50% di testi è in inglese.

Vai quindi per la tua strada o sei stato, anche in termini di produzione, direzionato?

No, io avevo già le idee chiare. Volevo creare un universo parallelo: a me interessa creare qualcosa di coerente e unico. È difficile per il live, ma interessante perché la volta che trovi il posto giusto, come la Cavallerizza qui a Torino, riesce perfettamente: quello è un posto in cui vivono insieme tanti tipi di arte diversa. A me è sempre piaciuta l’idea di suonare, con artisti che fanno altre esibizioni, di diversa natura, al contempo. Mi trovo bene in questi posti perché tutto è fluido, come la mia musica. Essa vuole parlare del nostro mondo, fluido: una persona sta lavorando o studiando e dall’ascoltare un pezzo techno passa ad uno punk e cinque minuti ancora dopo ad uno di musica classica. 

Cambiamo totalmente argomento: pallino del momento. Con cosa stai in fissa ultimamente e pensi valga la pena ascoltare?

Brian Jonestown Massacre. Erano contemporanei e in rivalità/amicizia con i Dandy Warhols (una delle mie maggiori fonti di ispirazione), ma diversi: molto vintage, meno ampi forse, ma chitarrosi con bei suoni che richiamano atmosfere anni ’60, un po’ hippie. Consiglio “Vad Hände Med Dem?”.


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