Per inquadrare Blackhat, a oggi ultimo film realizzato da Michael Mann, potremmo partire dalle reazioni suscitate nella critica al momento della sua uscita. All'epoca l'attesa per il nuovo film di Mann era alle stelle, il precedente Nemico pubblico, biografia di John Dillinger interpretato da Johnny Depp, risaliva infatti a sei anni prima, e la voce insistente che proprio Blackhat potesse essere l'ultimo film di Mann aumentava le palpitazioni di molti. Il flop commerciale che il film purtroppo si rivelò potrebbe aver portato in effetti il regista verso la conferma di questa decisione: Blackhat al botteghino non riuscì a recuperare nemmeno un terzo dei 70 milioni di dollari spesi per la sua realizzazione.
Le critiche positive arrivano in larga parte dal nostro paese (o così dice wikipedia) e in effetti recuperando alcune recensioni nostrane si legge tra le righe (e non solo) parecchio entusiasmo per questo ritorno di Mann, a parere di chi scrive legato più al ritorno in sé di un regista di indubbio talento e molto apprezzato dalle penne nostrane, che non alla reale riuscita di questa sua ultima opera sui meriti della quale ci si potrebbe tranquillamente mettere a sedere e discuterne.
Ciò che interessa di Blackhat è il lavoro di Mann, la sua idea di come un film debba essere realizzato, il suo insistere sull'afflato epico dei personaggi, il modo di calcare alcuni dialoghi in bilico tra il memorabile e l'inverosimile, la sua cifra stilistica; la storia viene poi dopo, a un livello sussidiario, in questo caso specifico anche parecchio dopo.
Un hacker misterioso riesce tramite un virus informatico dal codice intricato a creare un blocco di sistema con conseguente esplosione di un reattore nucleare a Hong Kong, danni tutto sommato limitati ma minaccia molto seria. Poche ore dopo lo stesso codice viene isolato dopo un attacco alla borsa di Chicago che fa schizzare alle stelle il prezzo della soia, operazione dalla quale qualche misterioso manipolatore trarrà vantaggio.
Sia le autorità americane che quelle cinesi schierano le loro squadre a caccia dell'hacker. Per l'F.B.I. indaga l'agente Carol Barrett (Viola Davis), per la sezione informatica cinese il capitano Chen Dawai (Leehom Wang) insieme alla sorella Lien (Tang Wei), un'esperta analista di rete. Chen intuisce che buona parte del codice è mutuato da un vecchio lavoro di un suo compagno d'università ai tempi in cui studiavano insieme al M.I.T., Nicholas Hathaway (Chris Hemsworth), al momento detenuto nelle carceri statunitensi per una truffa milionaria sulle carte di credito.
Sarà proprio Hathaway l'unica speranza di F.B.I. e sezione informatica cinese di venire a capo della faccenda, un losco affare che sembra ben lungi dal suo termine. Così Hathaway, in cambio dell'amnistia totale per i suoi crimini in caso di riuscita, si mette sulle tracce di questo inafferrabile hacker che non si dimostrerà solo essere un criminale "da salotto" bensì la testa di un'organizzazione non sprovvista di un suo braccio armato e che non esiterà nel metterlo in campo alla bisogna.
L'impressione che si ha guardando Blackhat è che in fondo a Michael Mann di costruire un discorso sulle minacce moderne, sull'utilizzo improprio delle tecnologie e sui rischi che tutti stiamo correndo affidandoci sempre più a rete, app e compagnia bella, non gliene importi proprio nulla. È solo un altro scenario, sono altri anni, è un altro contesto, tutto accessorio e funzionale all'idea di cinema di un regista che in realtà non ha più nulla da dimostrare a nessuno. Ciò che importa è la messa in scena, il rapportarsi dei personaggi tra di loro, con l'inquadratura e anche con le aspettative degli spettatori più fedeli a Mann, uno che è in giro dai tempi di Miami Vice (il telefilm, ne era il produttore ma influì in maniera sostanziale sulla realizzazione).
L'incedere elegante e cool di Hemsworth, il legame subitaneo del suo personaggio con Lien, le splendide riprese degli esterni, dei notturni delle città, l'epicità della scena madre, la maestria con cui è realizzata la sequenza dell'irruzione, la forza dei personaggi di contorno, l'ottima Viola Davis dura quanto la sua Amanda Waller altrove interpretata, sono tutti elementi ricercati e costruiti da un regista che permettono a una storia esile, seppur ben delineata, di scorrere da sola in maniera naturale.
Prima di scrivere queste righe mi sono confrontato sulla trama del film con una persona che lo vide tempo fa e del quale oggi non serba memoria di nessun passaggio di trama, perché in fondo qui questa è accessoria, è quella di un action come tanti, virato al digitale (con sequenze ad hoc tra le meno interessanti del film) ma classico nell'animo. L'idea finale è che in ultima analisi, qualche tempo dopo la visione di Blackhat non importerà più nulla a nessuno, della camera e dello stile di Michael Mann invece sì, anche se questo sembrava non bastare per garantirci altre opere del regista di Chicago. Invece pare che Mann stia portando a realizzazione il suo progetto su Enzo Ferrari...