Ci sono canzoni che sgorgano dal cuore, canzoni scritte per lenire un dolore, per rielaborare un lutto, per mettere un punto fermo su una fase dell’esistenza. Canzoni intime, personali, che assolvono al compito di guardarsi dentro e di dialogare con se stessi; canzoni magari bellissime, ma che riguardano più chi le scrive che chi le ascolta, perché prive di quella distanza dalla materia che le rende universali, patrimonio di tutti.
Talvolta, questi brani sono talmente soggettivi, talmente colmi di riferimenti personali o di pura sofferenza da essere inconciliabili con le logiche dello star system. Torna alla mente, ad esempio, Ohio dei CSN&Y, protest song che raccontava dei morti alla Ken State University, durante una manifestazione avvenuta il 4 maggio 1970, di cui Neil Young, qualche anno dopo, affermò di essersi profondamente vergognato per aver guadagnato soldi sulla pelle di quattro studenti americani. Il dolore e la militanza politica non sono, non dovrebbero mai essere in vendita.
E viene in mente, Black, capolavoro dei Pearl Jam e una delle canzoni più amate di Ten, esordio del quintetto di Seattle, e l’album che, nel 1991, fece breccia nel cuore della gioventù, riuscendo a fondere le nuove istanze del grunge con un impianto sonoro classicissimo.
A firma Eddie Vedder e Stone Gossard, Black è una canzone sull’amor perduto, una ballata dolente che racconta di una relazione finita male e di un addio che ha lasciato un vuoto infinito. Non un brano come tanti altri: Black è soprattutto Vedder che si racconta, che si mette a nudo, che apre il suo cuore a un’esperienza di vita che l’ha cambiato profondamente, che ripensa con toni dolci amari a una donna con cui avrebbe voluto condividere il proprio futuro e che, invece, ora, non c’è più. Le liriche sono chiare, dirette, pregne di uno struggimento che sembra non avere fine: “So che un giorno avrai una vita bellissima, so che sarai la stella nel cielo di qualcun altro”, canta Vedder nelle battute finali della canzone, “ma perché, perché tutto ciò non può essere, non può essere mio?”.
Ten, che fu accolto con grande favore dalla critica specializzata, fece fatica a decollare fra il pubblico, e le vendite, per alcuni mesi, procedettero a rilento. Poi, all’improvviso, nella seconda metà dell’anno successivo alla pubblicazione, il mondo si accorse dei Pearl Jam, e a quasi un anno dall’uscita, Ten entrò nei primi dieci posti di Billboard. Quello che inizialmente sembrava un mezzo flop, e che invece nel 1993 aveva superato in termini di vendite persino Nevermind dei “rivali” Nirvana, spinse la Epic a batter il ferro finchè caldo, con un intenso battage pubblicitario e la pubblicazione di ben quattro singoli (Alive, Even Flow, Jeremy e Oceans).
L’idea della casa discografica sarebbe stata quella di pubblicare Black come quinto singolo estratto, ma nonostante le pressioni, Vedder e soci si rifiutarono categoricamente. "Questa canzone”, disse Vedder ai mangaer della Epic, “parla di perdita ed è fatta di emozioni troppo intime…Certe canzoni non sono fatte per diventare dei numeri”.
Insomma, in quest’ottica, secondo i componenti della band, un video e il lancio come singolo, avrebbero tolto alla canzone la sua identità, la sua forza emotiva, il suo senso ultimo, che altro non era, se non una personale rielaborazione di un grave lutto sentimentale. Una presa di posizione ostinata e coerente, che non impedì, però, alla canzone di raggiungere il terzo posto di Billboard Mainstream Rock e di diventare uno dei brani più amati dai fan dei Pearl Jam.