Quello dei Black Pumas, lo dico senza timore di prendere una cantonata, è sicuramente uno degli esordi più convincenti dell’anno in corso, ed è davvero strano che di questa band, al momento, si siano accorti in pochi.
I Black Pumas arrivano da Austin, Texas, e sono un progetto messo in piedi dal cantante Eric Burton (con la T, fate bene attenzione) e da Adrian Quesada, songwriter, chitarrista, produttore e vincitore di un Grammy Award con la band di provenienza, i Grupo Fantasma. Il sodalizio fra i due è stato poi arricchito dalla presenza di alcuni sessionisti locali, con i quali questo full lenght è stato registrato.
Ecco, in poche parole, la genesi di una band, la cui musica pesca a piene mani dal r’n’b’ e dal soul, senza disdegnare però qualche incursione rockista e qualche pennellata dalle sfumature psichedeliche. In scaletta, dieci canzoni evidentemente ispirate al classico suono Motown, alla musica del grande Curtis Mayfield e, a cagione del timbro vocale di Burton, con richiami anche a Steve Winwood e Ray Charles. Un approccio molto classico, quello dei Black Pumas, ma rinfrescato da un suono scintillante e da arrangiamenti davvero efficaci, che tolgono la polvere dai solchi con una passata di intrigante modernità.
Si parte con Bad Moon Rising, ballata agrodolce cantata meravigliosamente da Burton: è Motown al 100%, mood appassionato da cuore in mano, hammond a tirare a lucido la melodia, tensione palpabile in una voce che sfiora spesso il falsetto e il cuore dell’ascoltatore. La successiva Colors è un altro gioiellino che dimostra quanto i Black Pumas siano bravi a rileggere con modernità il suono classico. La chitarrina che apre il brano è da sballo, fa pensare per un attimo a Manu Chao, poi la canzone si gonfia lentamente di umori gospel, con Burton che duetta con un coro di voci femminili fino a un assolo per piano elettrico che stende per il definitivo ko. Canzone spettacolare, da riascoltare dieci volte di fila, anche per cogliere il lavoro prezioso fatto in fase di arrangiamento.
Il leit motiv del disco è decisamente il groove, a volte estremamente ammiccante e seducente, come nella citata Colors o nella successiva Know You Better, sensuale ballatone soul strappamutande, in altri casi, invece, decisamente potente, come avviene nell’ottima Fire, chitarra riverberata, ritmica quadrata ed echi blaxploitation.
I Black Pumas, però, dimostrano anche di possedere quel quid di versatilità in più, grazie al quale riescono a scartare dalla narrazione principale con digressioni talvolta sorprendenti. La chitarra acustica apre l’intensa e struggente OCT 33, ed inevitabilmente la melodia agrodolce richiama alla mente Van Morrisson. Confines e Touch The Sky, pur mantenendo l’ossatura soul, risultano maggiormente al rock, quando, in entrambi gli episodi, spunta una chitarra graffiante, scarna, essenziale, che suona poche note, tutte decisive, e che, se non fosse una follia scriverlo, richiamerebbe alla mente lo stile di Neil Young.
Chiude la scaletta Sweet Conversations, chitarra acustica, ritmica scheletrica, atmosfera psichedelica, e mood confessionale, nel quale Burton canta i dolori della propria anima (“If I’m lost in my darkness with my soul on the pavement/ Won’t you speak with me spirit”).
Un esordio coi fiocchi, quindi, e un album che, pur possedendo un suono molto classico, sa mescolare con modernità le carte, riuscendo con eclettismo a tenersi lontano dal prevedibile. Coloro che non più tardi dello scorso anno si erano perdutamente innamorati del disco di Fantastic Negrito, con i Black Pumas troveranno nuovi motivi per essere felici. Consigliatissimo.