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REVIEWSLE RECENSIONI
14/11/2019
Editors
Black Gold
È uscita una raccolta degli Editors, la prima della loro storia e sono abbastanza sicuro che andrò a ripetere pari pari le stesse cose che dissi in occasione dell’uscita di “Violence”, a tutt’oggi il loro ultimo disco in studio. Non mi ricordo assolutamente quella recensione e tendenzialmente non mi capita mai di rileggere un mio pezzo (immagino sia perché di cose che mi deprimono ce ne sono già parecchie) ma quando parlo della band di Birmingham divento monotono, non ci posso fare niente.

Allora, scusatemi tutti e punto primo: io gli Editors non li ho vissuti, nel senso che quando infiammavano i club con dei live entusiasmanti e mietevano consensi di pubblico e critica con tre dischi in rapida successione uno più bello dell’altro, io guardavo altrove e dunque ho solo una vaga idea di quello che devono aver rappresentato per ascoltatori che, ad inizio millennio, vedevano rinverdirsi i fasti di un genere musicale che pareva irrimediabilmente passato di moda e che di colpo veniva interpretato e attualizzato con una lucidità senza precedenti.

Secondo: quando hanno iniziato ad attirare la mia attenzione, i tempi d’oro erano già finiti. Chris Urbanowicz se n’era appena andato ed è opinione comune che col suo abbandono la vena creativa del gruppo si sarebbe inaridita. In più, Tom Smith si era messo in mente di fare il grande salto, di insidiare il trono degli U2 e questo si è ovviamente riflesso sulle scelte in fase di scrittura e produzione. Quando è uscito “The Weight of your Love” io li ascoltavo da un paio d’anni e ci misi poco a capire che avrei potuto anche smettere di seguirli.

Terzo: oggi le cose sono un po’ più complesse ma potremmo lo stesso affermare che i pareri sugli Editors siano sostanzialmente due. Da una parte ci sono quelli che li apprezzavano agli inizi e ritengono che siano finiti all’indomani di “In This Light and on This Evening”; dall’altra, quelli che li hanno scoperti successivamente e li apprezzano per quello che sono diventati con gli ultimi lavori, vale a dire un bel gruppo rock, che scrive canzoni di facile presa e che dal vivo è sempre in grado di essere coinvolgente.

Io magari non sono così radicale, nel senso che apprezzo anche alcuni dei brani più recenti, ma è evidente che, pur non essendoci stato all’epoca, sono piuttosto allineato col primo partito.

“Black Gold” è una bella occasione per fare il sunto di una carriera che, dal punto di vista oggettivamente numerico, sta offrendo davvero tante soddisfazioni, anche se il botto vero e proprio non l’hanno mai fatto.

Due dischi: il primo con le hit e tre pezzi nuovi, il secondo con una rilettura acustica di otto brani, alcuni dei quali semi dimenticati e poco valorizzati anche dal vivo. Logico dunque dire che sia quest’ultimo il vero motivo per cui vale la pena acquistare la raccolta: “Walk the Fleet Road”, “Let Your Good Heart Lead You Home”, “Fall” e “Two Hearted Spider”, spogliati di tutti gli orpelli, vivono di un’essenzialità un po’ tenebrosa e particolarmente intima ma è anche interessante avere a disposizione cose come “Blood” o “Violence”, già proposte in questa versione in passato e decisamente valorizzate dal trattamento. Una prova ulteriore che gli Editors le canzoni le sanno scrivere, perché quando un pezzo funziona anche in chiave acustica, il più delle volte significa che è un bel pezzo.

Il primo volume va invece approcciato in maniera differente: sedici canzoni, un buon equilibrio tra vecchio e nuovo, una selezione che tiene conto esclusivamente degli episodi più conosciuti, tra singoli e classici live. Uno strumento agile e piuttosto esaustivo su come si possa passare dallo scrivere una “Munich”, una “The Racing Rats”, una “Papillon” (tutte cose che a distanza di anni si confermano su livelli siderali) al buttar fuori una “Magazine” o una “Hallelujah (So Low)” qualsiasi; con in mezzo, non dimentichiamocelo, goffi tentativi di rock da classifica come “Sugar” e “A Ton of Love” (che per quanto mi riguarda rappresenta il punto più basso che abbiano raggiunto in carriera).

L’insieme però è gradevole, si fa ascoltare con piacere e soprattutto per chi non li conosce, rappresenta la miglior introduzione possibile (perché non imporre da subito l’ascolto dei primi tre album, direte voi? Perché non sarebbe più una fotografia veritiera, purtroppo) ad una band che, in un modo o nell’altro, è riuscita a raccogliere quel che ha seminato.

Per quanto riguarda i tre brani nuovi, anche qui nulla di sorprendente. “Frankestein” in realtà la conosciamo da quest’estate e l’abbiamo anche già abbondantemente ascoltata dal vivo mentre le altre due si muovono più o meno sulla stessa falsariga: ritmi cadenzati, uso ruffiano dell’elettronica e ritornelli da stadio. Se nel caso appena citato le cose funzionano, “Upside Down” e “Black Gold” risultano piuttosto anonime, non danno certo l’idea che ce le ricorderemo sul lungo periodo.

Sarà anche cattivo dirlo ma ormai non credo ci si possa aspettare più nulla di sorprendente da Tom Smith e compagni. Letta in questi termini, “Black Gold: Best of Editors” potrebbe anche assumere il valore di testamento spirituale, per tramandare la memoria di un act che è stato grandissimo per un po’ e poi si è trasformato in qualcos’altro, accontentando alcuni e deludendo altri. A febbraio comunque sono da noi e sarà bello festeggiare tutti insieme.


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