L’abbandono di Isaac Wood, incapace di gestire la pressione del palco, aveva posto un grosso punto interrogativo sulla sorte dei Black Country, New Road. A distanza di un anno dalla loro decisione di continuare ugualmente, come sestetto e con un repertorio del tutto nuovo, è ancora presto per capire se tale mossa sia stata del tutto vincente.
Vero che l’estate scorsa, dopo averli visti due volte dal vivo, avevo esternato in questo stesso spazio considerazioni più che lusinghiere. Non me le rimangio, attenzione. È solo che, a bocce ferme, svanito l’effetto sorpresa e, particolare non da poco, con la possibilità di ascoltare le nuove canzoni dopo averle finalmente metabolizzate a dovere, credo che certi giudizi debbano essere giocoforza riveduti.
Lo scorso anno il collettivo dell’East England si era trovato per la seconda volta nella sua storia a dover ripartire da zero (la prima era stata quando ancora si chiamavano Nervous Conditions ed il loro cantante Connor Browne era stato accusato di molestie sessuali, col suo conseguente allontanamento dal gruppo) ma questa volta avevano deciso di non cambiare nome e di proseguire sulla strada già tracciata, operando però una completa operazione di riassestamento: via i brani già pubblicati, dentro il materiale inedito, composto più o meno in tempo reale e testato direttamente sul palco durante un corposo tour nei festival già programmato.
Ora quelle canzoni sono state raccolte e fissate definitivamente in Live at Bush Hall, registrato a dicembre nella popolare venue londinese, e la sensazione è quella che si sia chiuso un capitolo. O un prologo, se preferite.
Senza Wood il gruppo ha perso molto, è innegabile. Le sue linee vocali, il suo modo particolare di cantare, i suoi testi, catalizzavano inevitabilmente attorno a sé una band che comunque già allora si definiva una forma perfetta di democrazia compiuta. Scrivere canzoni facendo meno del suo apporto e prescindendo dalla sua voce, ha significato innanzitutto l’abbandono di quella scuola Post Rock in quota Slint che tanto li aveva fatti coccolare da una certa critica, unitamente ad un feeling scuro e nervoso che li rendeva, tra le nuove leve, degni di una considerazione particolare.
Già lo scorso anno, su uno dei palchi del Primavera Sound, avevo avuto piuttosto netta l’impressione che si fossero per certi versi “normalizzati”. Che poi nello specifico significa prendere quegli spunti a metà tra il Progressive Rock e l’Alt Folk che già emergevano in alcune tracce di Ants From Up There (penso soprattutto a “Chaos Space Marine” o a “Basketball Shoes”) sviluppandoli ulteriormente alla ricerca di quante più variazioni sul tema possibili. Il risultato sono canzoni che si muovono su un territorio meno travagliato, una sorta di pacificazione interiore (o dimensione contemplativa, se preferite) che prende a modello le lezioni Indie Rock di band quali Arcade Fire e Neutral Milk Hotel.
Tutta roba già sentita, in fin dei conti, ma con un senso della melodia ed una certa imprevedibilità di fondo che, pur con le aspettative ridimensionate, ci ha impedito di passare oltre e di dare questa band per morta.
Senza dubbio l’ascolto di questo live da cinquanta minuti scarsi (scelta un po’ al ribasso, io sinceramente avrei optato per un nuovo disco in studio) ha sedimentato maggiormente le sensazioni negative, ma c’è comunque ancora tanto di buono sul piatto.
L’ensemble di Brighton si presenta compatto al suo primo vero tour come band rinata dalle proprie ceneri, e per l’occasione le date in Italia sono addirittura quattro (Bologna, Codroipo, Sestri Levante, Milano), occasione più che privilegiata per vederli all’opera, dopo che lo scorso anno erano passati solo fugacemente per Torino, nell’ambito del TOdays.
Al Magnolia si arriva in una delle sere fin qui più calde dell’estate, col termometro che alle 21 è ancora sopra i trenta gradi e le zanzare che, sebbene meno numerose di altri anni, non danno tregua. La risposta del pubblico è discreta, ma forse non come ci si aspetterebbe: non c’è infatti il palco principale ad accogliere il gruppo, bensì quello più piccolo dell’area esterna. Una brutta notizia solo a metà: vero che in questo caso la visibilità è ridotta, ma vero anche che si guadagna in resa sonora.
Alle 21.30 spaccate dagli speaker parte, caciarona e senza senso, “You Give Love a Bad Name”, classico dei Bon Jovi che i nostri decidono di buttarci in faccia come musica d’ingresso, quasi a creare un contrasto ironico con ciò che di lì a poco andranno a proporre.
L’inizio è quello del disco dal vivo, vale a dire la cavalcata orchestrale di “Up Song”, decisamente in odore di Funeral, seguita immediatamente dal Folk sghembo di “The Boy”. La reazione dei presenti è delle migliori: tra battimani e singalong, sembrano aver perfettamente assimilato le nuove canzoni.
Sul palco ritrovo i sei esattamente come li avevo lasciati un anno fa: giovanissimi, un po’ impacciati, ancora non perfettamente amalgamati. È strano, perché è come se il gran numero di date fatte finora non avesse aumentato la loro confidenza on stage: al di là dell’atteggiamento ingessato, il continuo rivolgersi a turno dei vari membri al tecnico al mixer per far abbassare o alzare in spia i vari strumenti, è probabilmente sintomo di un’insicurezza di fondo che non hanno ancora imparato a gestire (ad un certo punto il sassofonista Lewis Evans ha strappato una risata a tutti quando ha detto: “Potresti per favore abbassare tutti gli strumenti tranne il mio?” Sentendosi poi in dovere di precisare: “Non è per divismo, è solo che non riesco a sentirmi bene!”).
Disposti a semicerchio in modo da potersi guardare in faccia, è ormai evidente come il direttore musicale di tutta la faccenda sia la bassista Tyler Hyde, che è anche la responsabile della maggior parte delle parti vocali (le altre sono affidate ad Evans e alla tastierista/pianista May Kershaw). Senza dubbio la batteria di Charlie Wayne è importante nell’economia ritmica, ma a livello melodico è soprattutto la combinazione piano elettrico/sassofono/flauto a fare la parte del leone, con la chitarra di Luke Mark spesso relegata ad un ruolo da comprimario.
Suonano bene, per carità, ma l’impressione è che siano ancora un po’ sfilacciati e che le composizioni manchino di fluidità: sarà che sono spesso organizzate in più sezioni diverse tra loro ma le esecuzioni dei brani già noti che ascolteremo durante la serata saranno, per quanto buone, non prive di incertezze e sbavature (c’entra forse anche il fatto che, come noi, anche loro fossero stremati dal caldo).
Resta senza dubbio la bontà di queste composizioni, ma anche un certo senso di scolastica disciplina, di cura della forma che lascia poco spazio alla fantasia. Non a caso, le cose migliori sono arrivate, nella seconda parte, con le esecuzioni di “Laughing Song” (qui Tyler ha fatto capire di essere davvero migliorata come cantante) e sopratutto di “Turbines/Pigs” (grandissima prova di May Kershaw), che hanno alternato momenti di bucolica contemplazione a quelle imprevedibili divagazioni strumentali che tanto ci erano piaciute sui due dischi precedenti. Più o meno sulla stessa falsariga si sono mossi i due episodi inediti, “24/7 365 British Summer Time” e “Nancy Tries to Take the Night”, ottimo bilanciamento tra appeal melodico ed elaborazione strumentale.
Ecco, se continueranno su questa strada, senza dubbio i Black Country, New Road potranno non far rimpiangere quello che erano prima. Il cammino è ancora lungo ma siamo fiduciosi che col prossimo disco i miglioramenti si toccheranno con mano.
Photo credits: Laura Floreani