Poco ma sicuro, quello fra Beth Hart e Joe Bonamassa è uno dei connubi artistici più riusciti della recente storia del rock. Non è solo una questione di dischi pubblicati, nel merito dei quali entreremo a breve. Fra i due, infatti, vi è stato soprattutto un processo osmotico di reciproca crescita. Il chitarrista newyorkese ha aggiunto un altro tassello qualitativo alla sua ormai frenetica e camaleontica carriera, che da anni lo vede inesausto protagonista di svariati progetti (uno su tutti, quello con i redivivi Black Country Communion); per la cantante originaria di Los Angeles, invece, il sodalizio con Bonamassa ha dato uno scossone mediatico non da poco a una discografia che, per quanto di qualità, era diventata, nel primo decennio del nuovo millennio, appannaggio esclusivo di una ristretta schiera di fans.
Oggi, per entrambi le cose vanno a gonfie vele, e questo terzo full lenght in studio testimonia che fra i due si è creato un feeling ormai prossimo allo stato di grazia. Non che prima non avessero fatto cose egregie: sia Don’t Explain (2011) che Seesaw (2013), per non parlare del scintillante Live In Amsterdam (2014), erano album bellissimi, non figli approssimativi di un’estemporanea collaborazione, ma lavori strutturati, invece, da una comune visione, plasmati dal medesimo entusiasmo, forgiati attraverso competenze tecniche che, fin da subito, apparivano nate per stare insieme.
Black Coffee segna un ulteriore passo avanti, è un disco ancora più riuscito, come se l’alchimia fra i due fosse attraversata da un ulteriore, più profonda consapevolezza, quella, cioè, di interpretare meglio di chiunque altro la materia del rock blues. Black coffe, dunque: musica nera che suona tale anche se a reinterpretarla sono due bianchi.
Bonamassa ha trovato la perfetta misura dell’abito indossato dalla sua chitarra, la Hart ha concluso, invece, il suo percorso di trasformazione in una vera e propria black singer, un po’ “lady in satin” e un po’ urlatrice. Il primo ha asciugato i tecnicismi in favore di un prestazione tutta sostanza: non mancano gli assoli fiume, certo, ma sono più contenuti, ficcanti, e tutti decisivi. Nessuna nota in eccesso, dunque, nessun esibizionismo fine a se stesso. Dal canto suo, Beth Hart ha plasmato la sua voce già eclettica e potentissima, arricchendola di nuove sfumature e piegandola sempre di più a timbri congegnali alla musica nera d’antan. Diamoci un taglio ai pigri paragoni con Janis Joplin: se proprio accostamento dev’essere, i riferimenti sono Tina Turner, Betty Davis e Etta James.
Squadra che vince, poi, non si cambia. A condurre le danze in cabina di regia, infatti, c’è quella vecchia volpe di Kevin Shirley, antico sodale del chitarrista, che ha già benedetto in fase di produzione i due precedenti capitoli. A dare una mano in sala di registrazioni, ciliegina sulla torta, un pugno di vecchie conoscenze che gravitano intorno alla figura di Bonamassa: l’abile Anton Fig alla batteria, Reese Wynans alle tastiere, la stupefacente Mahalia Barnes ai cori e Michael Rhodes al basso.
In scaletta, un filotto di cover pescate dal repertorio (meno noto) di grandissimi artisti dal nobile pedigree (con esclusione di Addicted dei semisconosciuti Waldeck), che alternano momenti travolgenti (l’iniziale Give It Everything You Got, rilettura da Edgard Winter, sarebbe stata in grado di resuscitare Lazzaro, risparmiando a Gesù un bel po’ di fatica) e ballate da brividi (Damn Your Eyes presa in prestito da Etta James, verso la quale la Hart è mossa da autentica venerazione – ascoltare per credere). Difficile trovare il meglio di un disco che si fa davvero fatica a togliere dal lettore. Nel gioco delle scelte, tuttavia, impossibile non indicare il blues rovente che surriscalda Joy di Lucinda Williams e le atmosfere jazzy di Lullaby Of The Leaves, presa in prestito da Ella Fitzgerald e benedetta da un assolo di Bonamassa a dir poco memorabile. Disco pressoché perfetto, Black Coffee sigilla una collaborazione che il tempo sembra progressivamente irrorare di nuova linfa. Resta solo la curiosità di vedere i due alla prova con un repertorio originale. Chissà, magari un domani. Al momento, se questi sono i risultati, va benissimo così.