Che bella realtà, quella dei tedeschi Midnight Rider! Se, infatti, è un dato di fatto che centinaia di band si ispirano al classico heavy metal e cercano di emulare lo spirito che animava le miglior band del periodo, spesso senza riuscirci, la band di Coblenza, fin dal debutto di Manifestation del 2017, è riuscita a incarnare perfettamente l'essenza di quel suono, inchinandosi con deferenza e amore innanzi all’altare dei primi Judas Priest (grazie anche alla somiglianza del timbro vocale di Wayne con quello del giovane Halford), riuscendo, però, a evitare emulazioni fini a se stesse. Alla ricetta, però, vanno aggiunte anche altre citazioni da quegli anni leggendari, e nel disco, qui e là, spuntano echi di grandi band, come Black Sabbath, Led Zeppelin, Saxon, e chi più ne ha, più ne metta.
Il tanto atteso secondo album dei tedeschi, Beyond The Blood Red Horizon, continua nella stessa direzione del debutto, con solo lo sgabello della batteria occupato dal nuovo membro, Tim. Ciò significa che siamo ancora una volta teletrasportati nella seconda metà degli anni ’70 (e prima anni ’80), con la giusta dose di blues e hard rock iniettata da riff pesanti e da una fragorosa sezione ritmica, propria del classic metal.
La title track, che è anche il primo singolo e apre il disco, racchiude immediatamente la chiave di lettura di tutta la scaletta: puro metal old school della fine degli anni Settanta, con un tocco melodico importante e un senso per il grande riff ritmico, che potrebbe ricordare i Thin Lizzy.
"No Man's Land", "Intruder" e "Time Of Dying" sono ammantate di un fascino oscuro che evoca, ovviamente, i Black Sabbath, mentre l’epica "No Regrets" ruba la scena con grande dinamismo grazie ai fantastici assoli di chitarra di Blumi e a transizioni geniali.
Se è fuor di dubbio che i Midnight Rider, nella maggior parte dei casi, indossano con orgoglio le influenze dei loro eroi, senza, peraltro, vergognarsene, è altrettanto evidente come questo album eviti accuratamente la mera operazione del copia-incolla. Stupisce, infatti, la produzione calda e organica, un meraviglioso suono analogico, e si ha la netta sensazione di una band che stia sugli strumenti con gioia e dedizione, sgocciolando sudore e passione. Tante ottime canzoni, con una menzione speciale alla conclusiva "Always Marching On", un rockaccio adrenalinico che si apre con un riff da batticuore che evoca i Deep Purple, lasciando un buon sapore in bocca, per un disco che si beve tutto d’un fiato.
Considerate le atmosfere bollenti e le sonorità d’antan, questo è un album che meriterebbe di essere ascoltato in vinile, in modo che il viaggio a ritroso nel tempo sia il più soddisfacente possibile. La speranza è, poi, quella di poterli ascoltare dal vivo, e chissà se prima o poi passeranno dalle nostre parti. Intanto, godetevi questo goduriosissimo sophomore, sperando che non trascorrano altri cinque anni per un terzo capitolo.