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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
29/06/2019
Lou Reed
Berlin
Ci vuole coraggio per affrontare Berlin, questo beffardo monumento eretto in spregio al più bieco e ottuso bigottismo, alla moralità ipocrita di facciata, al buonismo d’accatto.

Dando per vero – senza quindi disquisire in questa sede la validità dell’assunto – che viviamo in un’epoca post-moderna, nella quale è in atto una reinterpretazione dei ruoli sociali mediante la ridefinizione dell’identità individuale e il ripescaggio di forme - per la maggior parte estetiche - appartenenti al passato, Berlin può allora essere definita la prima tragedia pop post-moderna.

Sarebbe eccessivamente accademico trattare qui il tema, invero piuttosto ambiguo, del postmodernismo e dei connotati che ne definiscono i confini concettuali e temporali, e a questo proposito credo sia sufficiente accennare al recupero e alla rilettura, spesso sotto forma di pastiche, che nei testi dell’album Reed opera del modello modernista joyciano per fornire, se non una prova inoppugnabile, quantomeno uno dei numerosi elementi connotativi a sostegno della nostra tesi. Non bastasse ciò, si potrebbe chiamare in causa certo gusto, già ostentato con eccessi glamour nel precedente (e commercialmente ben più fortunato) Transformer, per atmosfere retrò e la rilettura in chiave contemporanea del decadentismo europeo di fine Ottocento. E casuale non è, d’altro canto, nemmeno la scelta di ambientare il “racconto” a Berlino, città simbolo della divisione, dell’incomunicabilità e della ‘decadenza’ stessa.

Fatta questa fugace premessa, che non ha certo la pretesa di essere perfettamente compiuta né compiutamente sviluppata, è necessario precisare con la massima chiarezza possibile i confini semantici entro cui l’oggetto-Berlin diventa produttore di senso e di significato, che vanno identificati nella cosiddetta “cultura di massa”, o meglio, di quell’aspetto della cultura di massa che va sotto il nome di “popular music”. Perché è proprio qui che incontriamo la prima contraddizione: può un ‘prodotto’ come Berlin essere letto, e quindi compreso, decodificato, nel contesto esclusivo della musica pop senza svalutarne l’immenso valore artistico?

Ci si obietterà che stiamo facendo un po’ troppo casino per qualcosa che in fondo “it’s only rock and roll”. Ma sfidiamo chiunque a definire Berlin un semplice disco di musica pop-rock. Potremmo spingerci oltre e lanciare una sfida ancora più ardua: definire Lou Reed un semplice artista pop. Pur rappresentando la quintessenza della musica rock e utilizzando unicamente segni, simboli e strumenti tipici, quando non esclusivi, dell’ambito semantico che definisce il “rock and roll”, Reed ne ha oltrepassato, ampliandoli, i limiti e di conseguenza ne ha ridefinito il significato, non solo introducendovi tematiche inedite ignominiose per la cultura dominante (magnificamente simboleggiata dalla “statue of bigotry” di “Dirty Blvd”, tratta da New York, capolavoro del 1989), ma soprattutto elevando il concetto stesso di “popular music” a un livello di autocoscienza e consapevolezza intellettuale che fino ad allora (l’esordio dei Velvet Underground risale al 1967…) era stata appannaggio quasi esclusivo della musica classica.

“Oh sorbe, diccelo in parole povere!” esclama Molly Bloom nel primo capitolo di Ulisse dopo che il suo Poldy ha tentato invano di spiegarle il significato della parola ‘metempsicosi’.

In parole povere, il messaggio di Reed è: per quale cazzo di assurdo motivo il rock non può essere considerato musica seria? La domanda è ovviamente retorica e non credo ci sia bisogno di spiegarne in dettaglio tutte le implicazioni.

Berlin, pubblicato nel 1973, fu letteralmente massacrato dalla critica e snobbato dal grande pubblico; cosa che spinse il suo autore ad affermare, qualche anno dopo: “Il fatto che l’album fosse stato frainteso e non apprezzato fu la più grande delusione della mia vita.”

E come dargli torto? Reed mise tutto se stesso in quell’album, i suoi fantasmi, le sue paure, le sue dipendenze, il suo cinismo, l’umorismo macabro squisitamente yiddish, la sua personalità schizofrenica, deviata, le sue paranoie, il suo cosmico senso di alienazione. Un (auto)esorcismo in pubblico, insomma, che si trasformerà, sette anni dopo, nell’autoconfessione più matura e lucida di Growing Up In Public, moralmente persino vile nel suo far uso della violenza come atto catartico estremo. Il dominio dell’ego è la sovradimensione dalla quale si sviluppa la pseudo-narrazione, senza tener conto di alcuna morale convenzionale o buonista.

Sullo sfondo di una Berlino impietosa e cupa (la stessa che Christiane F. ritrae con spietato realismo nel suo Wir Kinder vom Bahnof Zoo), la malsana relazione tra Jim e Caroline, entrambi tossicodipendenti, si dipana tra nichilismo, degrado, meschinità e micro-drammi d’una bassezza deprimente che spesso sfocia in gesti di odio e cattiveria gratuita, e si conclude (tragicamente) col suicidio di Caroline.

“A film for the ear,” per dirla con Reed, narrato attraverso monologhi interiori (palese l’influenza di Joyce, trasmessagli dal suo mentore letterario, Delmore Schwartz) non sempre facilmente attribuibili a questo o a quel personaggio, sotto il profilo musicale l’album è magniloquente. Sontuosi gli arrangiamenti che, pur rimanendo in certo qual modo “rock”, si compiacciono di fornicare ora col jazz, ora con la musica da camera, grazie allo zampino di Bob Ezrin, la cui sfarzosa produzione arricchisce (forse talvolta in modo un po’ ridondante) le splendide e malate melodie reediane; per non parlare dell’ensemble stellare di musicisti, e vale la pena citarli tutti: Steve Hunter e Dick Wagner (chitarre), i fratelli Brecker (fiati), Jack Bruce e Tony Levin (basso), Steve Winwood (organo e tastiere), Aynsley Dunbar e B.J. Wilson (batteria), cui si aggiungono altri turnisti di tutto rispetto.

È facile rimanerne disgustati, ma, come pare disse qualcuno in tempi non sospetti, “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra.” Ci vuole coraggio per affrontare Berlin, questo beffardo monumento eretto in spregio al più ottuso e bieco bigottismo, alla moralità ipocrita di facciata che domina la società contemporanea, al buonismo d’accatto. Ci vuole coraggio perché Berlin è per certi versi lo specchio di quella profondissima e occulta parte di noi che siamo costretti a negare, che abbiamo paura di accettare e che tentiamo ogni giorno di rimuovere dalla nostra coscienza di uomini occidentali post-moderni.

My castle, kids and home

I thought she was Mary, Queen of Scots

I tried so very hard,

It shows how wrong you can be.

I’m gonna stop wasting my time,

Somebody else would have broken both of her arms.

Sad song, sad song…

Sono gli ultimi versi della splendida “Sad Song”, quelli che chiudono l’album e ribaltano le convenzioni dell’happy ending grazie alla perfida autoassoluzione del protagonista. Un calcio in culo all’ipocrisia che fece incazzare tutti perché toccò tutti nel vivo.

(POSTILLA. Nel 2007 Lou si prenderà la propria vendetta sul mondo portando in tour una magnifica versione integrale di Berlin con trenta musicisti e dodici coristi. Secondo calcio in culo. E questa volta gli abbiamo detto anche “Grazie”, con imperdonabile ritardo).


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