Ci sono artisti che meriterebbero un monumento. Per quello che hanno fatto in passato, per quello che fanno nel presente, per essere in grado di gestire l'ipercreatività artistica tenendo fede alla propria coerenza espressiva, pur mantenendo sempre alta la qualità della proposta. Uno di questi, uno degli esempi più fulgidi, è Mark Kozelek, un nome da sempre lontano dallo show business, che ha cresciuto almeno due generazioni di ascoltatori appassionati di slow core e malinconia.
Una carriera iniziata nel 1989, con il progetto Red House Painters e una manciata di dischi che raccontavano l'epica della tristezza, proseguita in solitaria partendo dall'amore per gli Ac/Dc (What's Next To The Moon) e consacrata con i Sun Kil Moon, sacerdoti narcolettici di un folk rock minimale e disperato. Si potrebbe addirittura parlare di frenesia produttiva se la parola frenesia non creasse un curioso ossimoro con la lentezza che caratterizza le canzoni di Kozelek: più di venti album in studio, un pugno di ep e raccolte, tredici dischi live, le collaborazioni con Jimmy Lavalle, Desertshore e Petra Haden.
Eppure, l'impressione è sempre stata quella di un artista che, salvo rarissimi casi, abbia in testa in modo chiaro le coordinate di un percorso, le parole giuste per raccontare storie intrise di lirismo e disperazione. Non è un caso, quindi, che questo nuovo Benji sia probabilmente il punto più alto della discografia di Kozelek fin dai tempi del celebratissimo Down Colorful Hill: un disco difficile, ostentatamente intimista e autobiografico, in cui il songwriting si spoglia di ogni accento rock ed elettrico per cogliere, in sembianze esclusivamente acustiche, la quintessenza della poetica kozelekiana.
Premessa d'obbligo è che Benji (registrato a San Francisco a metà del 2013) non può risolversi in pochi e superficiali ascolti. Ci sono, infatti, dischi che non si limitano a donare emozioni, ma pretendono da noi un tributo in termini di attenzione, solitudine, empatia. Con tale predisposizione d'animo, si può davvero cogliere il senso di un'opera la cui architettura è basata su arrangiamenti minimali, sottili come il segno di una linea, eppure decisivi nelle piccole sfumature che prima mettono in nuce e, dopo svariati ascolti, esaltano un'ispirazione altissima per tutti i sessantadue minuti della scaletta.
A partire dal dramma autobiografico della malinconica Carissa, brano che apre il disco ricordando la morte di una cugina a causa di un banale incidente domestico, per concludersi con Ben's My Friend, un spiraglio di luce pop impreziosito da un bell'assolo di sax.
In mezzo altre nove canzoni in cui Kozelek apre l'abum dei ricordi (i dieci minuti evocativi di I Watched The Film The Song Remains The Same), narrando piccole storie di quotidianità (la dolcissima Micheline, su una bambina affetta da un ritardo mentale), tributando alla malinconia degli affetti commossi omaggi in chiaroscuro (I Can't Live Without My Mother's Love, I Love My Dad).
Un'ora di folk dimesso, dolente e ossessivo, sul quale svetta il deragliamento psichedelico di Richard Ramirez Died Today Of Natural Causes, cantato alle frontiere del rap in un accalcarsi di voci sbilenche e con il rullante secco e puntuto di Steve Shelley a chiosare malevolo il brano.
Benji è un'opera impegnativa, su questo non ci piove, ma la pazienza di ripetuti ascolti premierà l'ascoltatore, regalandogli uno dei momenti musicali (e poetici) più intensi uscito nell’anno domini 2014.