Below a Massive Dark Land, secondo disco della giovane promessa Naima Bock, si nutre di arrangiamenti ingegnosi e atmosfere altalenanti, nelle quali il gioioso e il cupo vanno a braccetto. Non potrebbe essere altrimenti, probabilmente, quando un artista ha assorbito più culture in maniera profonda, nascendo a Glastonbury da padre brasiliano e madre greca.
Come nel promettente esordio Giant Palm, ma ora con maggiore sfrontatezza e maturità, il concetto di saudade si incastra in ritmiche che, partendo dalla classica struttura pop rock, si immergono in una moderna bossa nova, lambiscono il jazz e volano verso nuovi lidi. L’artista ventiseienne punta fino in fondo all’orizzonte, alla ricerca di qualcosa di inafferrabile, per sentirsi non solo parte del mondo, ma coscienza del tutto, a costo di sembrare in contraddizione con se stessa, in bilico tra umiltà ed egocentrismo.
Certamente mancano l’urgenza e l’immediatezza del debutto, tuttavia la Bock supplisce a queste mancanze attraverso un’idea musicale ben studiata, con l’intento, riuscito, di far convivere più voci contrastanti all’interno di un progetto coeso, fin dall’ariosa opener, l’interlocutoria “Gentle”.
«Spesso anelo a una maggiore stabilità. “Gentle” lotta con l'idea di fermarsi in un luogo per più tempo. È qualcosa che mi piacerebbe fare un giorno, ma la mia tendenza è quella di muovermi, non riesco a sentirmi pienamente a casa nel mondo. Sento che sarebbe difficile colmare questo divario».
L’“ansia da prestazione” prosegue con quel piccolo capolavoro di nome “Kaley”, fresca e sorprendente nei suoi contrappunti e intervalli, nella sua spezzettatura, a cavallo tra r&b, soul e rock. Ed ecco affiorare il tema dominante dell’opera, in connotazione sia lirica, sia musicale: quel senso di incompiutezza che tende alla compiutezza. Le canzoni di Below a Massive Dark Land (il titolo deriva dal libro Flights di Olga Tokarczuk, una sorta di descrizione del mondo visto da un aereo), tracciano un percorso comune e allo stesso tempo solitario, sono radicate nel luogo, ma scorrono libere, affondano nell’intimo, divagando in tutto quanto c’è attorno, in un eterno contrasto tra spiritualismo e materialismo, quasi a voler ricalcare concetti di pirandelliana memoria.
Nell’album è costante la constatazione del tempo che passa. L’enigmatico folk di “Feed My Release” parla soprattutto di rimpianti, contornato dal sassofono meditabondo di Meitar Wegman e dalle armonie corali del violinista Oliver Hamilton, di Holly Whitaker e del batterista Cassidy Hansen. In “My Sweet Body” Naima dichiara che “la gravità ci sta lentamente trascinando verso il basso", in una canzone dove la dolcezza si tinge delicatamente di un disagio strisciante mentre canta “I cannot seem to look after this body”.
“Lines” è una ballata a metà strada tra Crosby, Stills & Nash e Tori Amos, mentre l’acustica “Further Away” (con bouzouki, clarinetto e piano suonati da Jack Ogborne, anche al controcanto) ricorda forse un po’ troppo i fraseggi di “Shape of My Heart” di Sting, pur cercando di spostarsi da quella melodia per tenere un minimo di originalità. “Takes One” piace invece per come si evidenzia la capacità di estensione vocale dell’autrice.
Le trappole in cui possiamo cadere quando invecchiamo appaiono nell'ironia di “Age”, un country folk, arricchito da più voci e con il basso eloquente di Clem Appleby, che si prende gioco della solita lamentela insita nella frase “le cose erano migliori ai miei tempi”. Colpisce nel profondo dell’animo, infine, la crepuscolare “Moving”, con il violino di una bellezza vaporosa e quell’atmosfera tra l’onirico e il claustrofobico, tra la pace e il tormento, creata nel finale da fiati sfuggenti, dal sentore catacombale.
Date tutte queste premesse potrebbe sembrare strano che la maggior parte delle canzoni siano nate in modo molto semplice con Naima da sola, chiusa nel capannone della nonna a sud di Londra: terminato il rapporto con il produttore Joel Burton, la Bock ha composto con chitarra e violino, aggiungendoci la voce, prima di arrangiare tutto con il suo ensemble tramite l’aiuto di Jack Ogborne, Joe Jones e Oliver Hamilton. Questa ricerca di nuove strade, a volte puntando sul minimalismo, si capisce però chiaramente nel tenero bozzetto acustico conclusivo “Star”, uno dei pezzi lasciati nella loro dimensione iniziale.
Pur senza la freschezza e l’effetto sorpresa dell’esordio, Below a Massive Dark Land è un album che rimbomba in un momento di monotonia produttiva generale, offrendo un senso di speranza e di meraviglia. È un disco che merita un ascolto attento e a più riprese per carpire tutti i segreti nascosti nei dieci brani. Naima Bock dimostra una profondità musicale e lirica sorprendente per l’età. Oltrepassati senza sconquassamenti gli ostacoli dell’opera seconda, quella importante per riconfermare le proprie doti, ora può navigare serena verso nuovi orizzonti, forte di una ormai consolidata attività live e di un songwriting particolarmente ispirato.