Quando nel 2013 Joe Bonamassa lasciò il gruppo per seguire le infinite diramazioni della sua carriera solista, nessuno avrebbe scommesso una lira sul fatto che i Black Country Communion sarebbero tornati insieme. Anche perché, diamo buone le voci di corridoio, due galli nel pollaio (lo stesso Bonamassa, e Hughes) avevano fatto non poca fatica a gestire quella complicata convivenza. Invece, il chitarrista newyorkese, lo scorso anno, ha fatto marcia indietro e ha chiesto agli altri tre componenti di rimettere in piedi il progetto, per la gioia di tutti coloro avevano trovato nel combo anglo-americano l’erede di quel suono classico riconducibile all’hard rock targato seventies. Una reunion tanto inaspettata quanto proficua, visto che il gruppo, con la complicità del solito Kevin Shirley (sodale di lunga data di Joe Bonamassa), nei due mesi trascorsi presso i Cave Studios di Malibù, ha levigato una scaletta di brani originali cazzutissimi, tanto espliciti nei loro evidenti riferimenti stilistici, quanto convincenti per l’alto tasso di ispirazione ed energia. Se poi c’è una band che può fregiarsi a ragion veduta del titolo nobiliare di “super gruppo”, questi sono proprio i Black Country Communion. Derek Sherinian, ex Dream Theater, pur possedendo un appeal un poco inferiore ai compagni di scuderia, è un talento che non si discute e a partire da Afterglow (2012), ha guadagnato sempre più spazio, diventando ora indispensabile nel tratteggiare il suono della band. Jason Bonham, figlio del grande “Bonzo”, ha ereditato la potenza del padre, tanto da non sfigurare in un ipotetico, quanto ozioso, confronto con l’illustre genitore, mentre Joe Bonamassa, inutile perderci troppo tempo, è uno dei migliori chitarristi blues in circolazione, capace però, quando è al servizio dei Black Country Communion, di tirare fuori quei ringhi hard che nella sua musica passano solitamente in secondo piano. Resta da spendere due parole per Glenn Hughes, che è l’attore protagonista del disco: la sua voce, infatti, nonostante abbia da poco compiuto le sessantacinque primavere, non ha perso nulla in potenza ed estensione da quando militava nei Deep Purple e divideva il microfono niente meno che con David Coverdale. La sua performance vocale è da urlo, così come la sua consueta prestazione al basso, che garantisce profondità e spessore al suono. Sono dieci le canzoni in scaletta e tutte da ascoltare con le casse dello stereo a palla: la band, infatti, randella senza tema, rinverdendo i fasti dell’epoca d’oro che fu degli Zep e dei Purple, senza, tuttavia, perdere l’occasione per creare, a livello compositivo, qualcosa di più complesso da una mera esibizione muscolare. Se, infatti, l’iniziale Collide, col suo riff durissimo, ricorda l’incedere devastante del “martello degli dei” e Sway è una bomba a orologeria, pronta a esplodere negli acuti impossibili di Hughes che infuocano il ritornello, brani come The Last Song For My Resting Place, attraversata dalle evocative note di un violino, e The Cove, con le sue atmosfere cupe e drammatiche, testimoniano un tentativo riuscito di creare partiture più dilatate ed elaborate. Il vertice del disco è però l’heavy funky di The Crow, che come un uragano spezza in due la scaletta, citando i Deep Purple e inanellando una serie d’assoli di tecnica al puro fulmicotone (Hughes, Sherinian e, quindi, Bonamassa). Se qualcuno avesse coltivato il dubbio di trovarsi di fronte a una reunion dettata da motivi squisitamente commerciali, è servito al primo ascolto: BCC IV è un discone di classic rock come se ne facevano una volta, e sigilla regalmente la prima parte di una carriera che, si spera, possa continuare ancora a lungo.