S.F.Sorrow, anno domini 1968, fu un disco rivoluzionario e seminale, il primo concept album della storia, scrivono i libri, in cui confluirono, con sguardo sul futuro, i suoni del decennio: psichedelia, trame lisergiche, intuizioni progressive, beat e rock. Un’opera geniale, complessa e affascinante, che ai tempi non ebbe alcun riscontro in termini di vendita e la cui grandezza venne compresa solo più tardi, quando ormai i Pretty Things avevano già espresso tutto il loro potenziale.
A volte, però, anche un solo disco può consegnare alla leggenda, esattamente come successe con S.F.Sorrow e quella band di culto, il cui nome era preso in prestito da una canzone di Bo Diddley, e la cui carriera, da quel momento in poi, non ebbe più picchi d’ispirazione degni di nota. Capitanato dal cantante Phil May e dal chitarrista Dick Taylor, il gruppo, infatti, uscì dagli anni ’60 provato da defezioni e fallimenti commerciali, e ha continuato a fare dischi con onestà e passione, senza più brillare, certo, ma mai deludendo completamente.
Oggi, Phil May non c’è più: malato da tempo, è deceduto il 15 maggio di quest’anno a seguito delle complicazioni di un’operazione all’anca, resasi necessaria per una brutta caduta dalla bicicletta. E’ riuscito, però, nell’impresa di lasciarci un ultimo disco, il più bello da tanti anni a questa parte, una sorta di testamento artistico, un saluto a quei fan che, nonostante il passare dei decenni, non hanno mai smesso di amare la musica della band britannica.
Siamo agli antipodi, però, del classico disco dei Prettty Things, perché Bare As Bone, Bright As Blood è interamente acustico, scarno, essenziale, composto esclusivamente di cover. Una sorta di American Recording britannico, un ultimo colpo di coda per sugellare una carriera durata più di cinquant’anni. In scaletta, infatti, troverete solo la chitarra di Taylor, acustica e slide, e la voce sofferente, calda e incredibilmente espressiva di May, che ricorda tantissimo quella del Johnny Cash al limitare della sua vita.
Bare As Bone, Bright As Blood è un album polveroso, fragile eppure emotivamente potente, composto di canzoni che sanno toccare il cuore, che fanno vibrare l’anima, anche se è fisicamente palpabile il senso di precarietà, anche se la malattia e la morte sono dietro l’angolo, minacciose ed esiziali. Dodici canzoni che sanno di sconfitta e di resa, che sono attraversate dallo sgomento della definitività, che sono tremanti come foglie nel vento e caduche come i colori autunnali quando vengono inghiottiti da brume vaporose.
Non c’è un solo istante sprecato, in questo disco: ogni nota, ogni verso, ogni accordo sono decisivi perché ultimi, non più ripetibili. Resteranno a lungo nella memoria, però, il corpo ossuto ma ancora vitale di reinterpretazioni da brivido (Redemption Day di Sheryl Crow, Love In Vain di Robert Johnson, Ain’t No Grave di Claude Ely, per citarne solo alcune), e quel commiato finale, I’m Ready (Willie Dixon), che consegna la voce di Phil May all’eternità.