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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
04/07/2022
Live Report
BadBadNotGood, 28/06/2022, Circolo Magnolia
I Badbadnotgood suonano a luci spente, con il solo accompagnamento di visual rappresentati paesaggi vari provenienti da un proiettore a bobina. Una scelta azzardata e un'esperienza fisica, per un'ora e tre quarti composta da un unico flusso di suggestioni.

L’Italia non è un paese per gente con gusti musicali troppo raffinati o complessi ma è anche vero che negli ultimi anni si sono visti spesso anche da noi alcuni tra i nomi più importanti del Jazz contemporaneo, a partire da Kamasi Washington ma anche e soprattutto Shabaka Hutchings, uno dei principali artefici di quella “scena londinese” che ha contribuito parecchio a donare una nuova percezione ad un genere che da troppo tempo era considerato “colto” e “roba da intenditori”, e che è più volte passato da noi sia coi Sons Of Kemet che coi The Comet is Coming. Aiutano senza dubbio anche manifestazioni importanti come il JazzMi (a Milano) e il Jazz is Dead (a Torino), sempre al passo con i tempi, ma non bisogna dimenticare che poche settimane fa dal Novara Jazz è passata pure l’Orchestre Tout Puissant Marchel Duchamp, che lo scorso anno ha realizzato forse uno dei lavori più rappresentativi in tale ambito.

I Badbadnotgood oltreoceano sono già star affermate, merito anche di collaborazioni con Kendrick Lamar, Ghostface Killah, Kali Huchis, Little Simz e altri che sarebbe lungo elencare. Sono anche una prova, se ce ne fosse bisogno, del fatto che l’ibridazione musicale è ormai una realtà più viva che mai, e che dischi come Mr. Morale & The Big Steppers, destinato senza dubbio a scalare le classifiche redazionali di mezzo mondo, saranno sempre più una prerogativa dell’Hip Hop dell’immediato futuro.

Talk Memory, quarto disco della loro carriera, è arrivato a cinque anni da IV, il lavoro della consacrazione, e a tre dall’abbandono del tastierista e membro fondatore Matthew Tavares, un avvenimento potenzialmente in grado di stroncare una carriera. Non si sono persi d’animo, questi ragazzi di Toronto, e anche grazie al prezioso apporto di Sam Shepherd (Floating Points), Laraaj e Arthur Verocai, hanno realizzato quello che probabilmente è il loro lavoro migliore di sempre, senza dubbio una delle cose più belle accadute nella parte finale del 2021.

 

Stasera sono previsti temporali violenti e l’annullamento non è un’ipotesi fantasiosa, dato che il palco principale del Circolo Magnolia, per quanto coperto, difficilmente potrebbe reggere bombe d’acqua di una certa entità e oltretutto quello che è successo proprio lo scorso giugno, durante l’ultima serata del Mi Manchi, con l’esibizione di Emma Nolde cancellata da un bel nubifragio, credo sia ancora vivo nei ricordi di chi c’era.

Quando arrivo sul posto il cielo è stranamente aperto ma dopo le prime note del set di Memento qualcosa comincia a cadere, tanto è vero che lui dal palco scherza dicendo che finalmente ha realizzato il sogno di cantare “L’odore della pioggia” sotto l’acqua.

Le premesse che avevano salutato l’affacciarsi di Andrea Bruno sulla scena musicale non sono state forse ancora rispettate in pieno, ma il ventenne di Brugherio, che fa parte del roster di un nome importante come Asian Fake, ha dimostrato comunque di avere la stoffa per potersi distinguere. Il disco di esordio Acquadolce, che ha fatto seguito all’EP di dicembre 2020 Memento non ha paura, ne ha messo in luce il talento, che a questo giro può finalmente esprimersi liberamente anche in sede live. Pochi brani per lui, penalizzato da un ritardo di una ventina di minuti sulla tabella di marcia. Sul palco sono in quattro, batteria, Synth ed effetti vari, fiati (sassofono e flauto) con Andrea che si accompagna alla chitarra. Un sound essenziale ma sufficientemente ricco, soprattutto quando interviene il sax. Le canzoni, tra cui ci sono “Xsempre” ed il primissimo singolo “Non mi manchi (bugia)”, sono senza dubbio valide e se riuscisse a liberarsi di una eccessiva dipendenza dagli stilemi di Venerus in sede di scrittura, sarebbe ancora meglio. Resta un artista da tenere d’occhio, uno di quei nomi importanti per l’evolversi dell’It Pop in senso più stratificato e multiforme.

 

I Tangram sono abruzzesi e hanno tutto un altro percorso, nel senso che con l’Italia proprio non c’entrano nulla. Hanno in curriculum la partecipazione ad un’edizione di X Factor (nel 2021) ma è un programma che non seguo da tempo, non ne ho memoria. Per la verità mi ero perso anche Cosmic Fruits, il loro esordio uscito lo scorso novembre. Un peccato, perché il quartetto rappresenta la risposta nostrana a gruppi come Parcels e Balthazar, un’attitudine Funk marcata a tratti fin troppo filologica, un groove decisamente irresistibile che si propaga attraverso un repertorio privo di originalità ma scritto come si deve. Sul palco sono divertenti ma poco spontanei, si capisce che il loro è un live studiato nei minimi particolari (gestualità inclusa) e questo, nonostante la bontà dell’effetto, toglie qualche punto al risultato finale.

Promossi in pieno ma da rivedere in un contesto tutto loro, qui hanno suonato troppo poco e soprattutto troppo presto, la scarsa presenza di pubblico si è fatta sentire.


 

Sullo Studio Murena c’è poco da dire che non sia già stato detto, tornano al Magnolia un mese dopo il loro infuocato show sul palco della collinetta durante l’ultima giornata del Mi Ami, e con gli headliner della serata avevano già interagito a distanza, visto che esattamente due anni prima avevano pubblicato una versione live di “Flashing Lights” (che in realtà è un pezzo di Kanye West ma che è stato riletto anche dai canadesi).

Dal vivo sono una forza della natura, il modo con cui fanno interagire il Jazz con l’Hip Hop è vincente, per nulla forzato e conferma come siano due mondi molto più in continuità di quanto si sia disposti a pensare (la stessa storia dei Badbadnotgood, adolescenti cresciuti con Tyler, The Creator e passati al Jazz nel corso dei loro studi musicali, è lì a dimostrarlo). Maurizio Gazzola e Marco Falcon costituiscono una sezione ritmica perfetta, tempi dispari e geometrie intricate che non vanno per nulla ad intaccare la potenza e il tiro del live, grazie anche a Carma, che sciorina le sue rime con un flow notevole e una spiccata attitudine Old School.

Brani come “Giorni dispari”, “Vuoto testamento”, “Eclissi” e soprattutto il manifesto “Long John Silver” sono semplicemente tra le tracce più belle dell’Hip Hop italiano degli ultimi anni. La gente nel frattempo è arrivata per cui il loro set risulta anche ben partecipato. Meriterebbero sicuramente di più di ciò che stanno raccogliendo ma purtroppo in un paese come il nostro certe ibridazioni non vanno troppo incontro al gusto del pubblico, che è mediamente poco preparato (d’altronde se uno come Kendrick Lamar arriva da noi dopo 9 anni di assenza e non fa sold out, qualcosa che non va ci dev’essere per forza). Lentamente, passo dopo passo, stanno comunque mietendo consensi e ci auguriamo davvero di vederli ai piani alti di qui a pochi anni.

 

Badbadnotgood salgono sul palco alle 22 in punto, con la tabella di marcia perfettamente recuperata e con un cielo che, seppur ancora interlocutorio, ha ormai cessato di essere minaccioso (cadrà giusto qualche goccia a metà concerto, poi più nulla), per cui le primissime note di “Signal From the Noise” hanno anche il sapore dello scampato pericolo.

Suonano a luci spente, con il solo accompagnamento di visual rappresentati paesaggi vari (il centro di una metropoli coi suoi grattacieli, le distese d’acqua dell’oceano, il deserto di Mojave) provenienti da un proiettore a bobina, secondo una tecnica resa celebre dai Godspeed You! Black Emperor.

Scelta azzardata, che tuttavia non distrae né rende più difficoltoso l’ascolto: la musica dei nostri è talmente “presente” che non ha bisogno di elementi di contorno, è un’esperienza talmente fisica, tangibile, da non avere bisogno neppure della totale visibilità dei musicisti che la suonano.

Alexander Sowinski è il centro propulsore del gruppo e non solo perché è dalla sua batteria che i brani prendono forma: lo si capisce anche dal modo in cui il suo strumento riempie ogni spazio disponibile, da come i suoi pattern si inseriscono tra le linee di basso del sempre impeccabile Chester Hansen, spesso e volentieri rafforzando le melodie. Ma è anche colui che si preoccupa di interagire col pubblico, a tratti parlando mentre suona, deformando la sua voce con l’utilizzo di strani effetti. Felix Fox sta sostituendo Matthew Tavares dal vivo e bisogna dire che svolge egregiamente il suo compito, le sue tastiere sono spesso al centro dell’attenzione e salgono in cattedra a più riprese. Menzione a parte per Leland Whitty, il cui sassofono costituisce il più importante marchio identitario di questa formazione e che nel finale, quando imbraccia la chitarra per gli ultimi brani, sposta il mood generale quasi al confine col Progressive.

 

Il concerto dura un’ora e tre quarti ed è un unico flusso di suggestioni, coi brani di Talk Memory a rappresentare la parte più corposa della scaletta, la maggior parte degli episodi dilatati da improvvisazioni varie e suoni complessivamente più robusti e corposi rispetto alle versioni in studio.

Nel finale arriva anche una meravigliosa “Lavender”, in rappresentanza di quel capolavoro che fu IV, testimonianza di una proposta ancora fortemente incentrata verso l’Hip Hop e la Black Music in generale.

A colpire è anche la straordinaria partecipazione del pubblico (nel frattempo il parterre si è riempito davvero), che ha alternato un silenzio quasi contemplativo ad un battimani entusiasta, sempre in piena sintonia con ciò che accadeva sul palco. Tanto che alla fine, dopo novanta minuti abbondanti di show, il gruppo è dovuto rientrare per un corposo bis, richiamato dagli applausi rumorosi dei presenti.

Presto per dire se qualcosa si stia finalmente muovendo anche da noi ma di sicuro questa può essere considerata una serata perfettamente riuscita: i prossimi passaggi di Thundercat e Sons of Kemet certificheranno eventualmente la tenuta di tutto questo.

 


Photo courtesy: Lino Brunetti