I doni della natura non si dovrebbero mai rifiutare e questo Steve Winwood lo sa benissimo. Trovarsi, però, catapultati nel music business già a quindici anni grazie alle spiccate doti artistiche e a una voce alla Ray Charles non è a ogni modo facile e, nel tempo, è accettabile avere avuto qualche periodo di smarrimento.
Così dopo il fulgore dello Spencer Davis Group, l’altalena emotiva provata a lungo con i Traffic, senza dimenticare la meteora Blind Faith e la capatina nel Ginger Baker’s Air Force, arriva il momento della carriera solista, in cui un forte innovatore come lui, magnificente talento dell’organo e sottovalutato chitarrista, decide di buttare tutto se stesso, forse anche troppo. Nascono in questo modo tre album in un lustro, Steve Winwood (1977), Arc of a Diver (1980) e Talking Back to the Night (1982) che, a parte qualche ospitata nel primo, lo vedono come “one man band”: praticamente suona ogni strumento.
Certo, non mancano i pezzi vincenti: ci sono "Vacant Chair", "Spanish Dancer", ma soprattutto "While You See a Chance" e "Valerie" a illuminare un percorso carico di sintetizzatori. Pare un tragitto a ritroso, quasi a voler spegnere quel fuoco punk che il mondo del rock sta sputando fuori. La scelta dell’elettronica e delle più avanzate tecnologie dell’epoca sembra comunque un po’ troppo fine a se stessa e il rischio, proseguendo su questa strada, è quello dell’autoreferenzialità. La dimostrazione che qualcosa sia da variare è palese, sia dal punto di vista commerciale, con un netto calo di vendite dell’ultimo prodotto, sia in quello prettamente artistico, dove la mancanza di contatto con altri musicisti in studio si associa a una diminuzione di estro, offrendo una manciata di canzoni eccessivamente scontate e prive di nerbo.
Passeranno quattro lunghi anni e basteranno alcuni esigui, ma importanti assestamenti per far ripartire la macchina del successo, abbinata, questo è importante dirlo, a una recuperata qualità. Back in the High Life, parafrasando il titolo, innalza nuovamente la vita di Winwood: il suo precedente periodo d’oro, caratterizzato da un abbondante rock blues psichedelico, si trovava in una strada senza uscita, ma pure i cambiamenti attuati erano confluiti in un binario morto, così in quest’opera si opta per una piccola interessante rivoluzione. Il risultato è un piacevole synth pop screziato da un tocco di funky, in cui si risentono peraltro le influenze dei tempi passati.
Una ritornata ispirazione lo conduce a miscelare proposte altamente originali, con una ritmica moderna, a gemme dal delicato songwriting e l’esperimento funziona, riportandolo nella vetta delle classifiche e accontentando una critica che sarebbe stata pronta ad affondarlo in caso di un nuovo passo falso.
La travolgente "Higher Love", che apre significativamente le danze, ne è fulgido esempio; accanto alla bellissima melodia vi è una complessità di accordi notevole, a dimostrazione della costruzione di un interessante easy listening ingegnosamente studiato, mai banale. La forza percussiva del brano, già preponderante nel famoso prolungato intro, dimostra la peculiarità e l’attenzione posta nell’arrangiamento del pezzo e qui è d’uopo introdurre il personaggio più importante, oltre all’autore, di questo progetto. E’ merito di Russ Titelman, storico produttore coinvolto nel disco, infatti, l’idea di elaborare la parte ritmica mischiando la strumentazione elettronica alla batteria, suonata invece live, dal bravo John “JR” Robinson e, in seguito, aggiungere ancora segmenti campionati dalla performance di quest’ultimo. La brillante combinazione audio tra un sound creato da una macchina e un uomo risulta vincente e darà una freschezza e una vivacità anche a tutte le altre tracce in scaletta, eccezion fatta per "My Love’s Leavin’", che, vista l’atmosfera eterea, placidamente soffusa, rimarrà l’unica soggetta quasi solo a drum machine.
Sempre Titelman si rivela fondamentale nella scelta di musicisti e pregiati ospiti che aggiungono un pizzico di pepe a un piatto già saporito. Così Chaka Khan caratterizza ulteriormente la precedentemente citata "Higher Love" coi suoi vocalizzi, e compare pure nel video di lancio del singolo che raggiunge il primo posto nella Billboard Hot 100. Un’altra intuizione è la partecipazione di James Taylor in Back in the High Life Again, il cui cantato armonizza quello di Winwood; quest’ultimo si cimenta anche al mandolino, infondendo profumi di serenità nella dolce ballata che discetta con ottimismo sulla possibilità di tornare a star bene con se stessi, per poi riallacciare una relazione con una persona importante a livello sentimentale. Felicità individuale che diventa armonia universale.
La decisione di coinvolgere Joe Walsh di converso è tutta dell’ex Traffic e consente di introdurre due perle che spesso scintilleranno nelle susseguenti esibizioni dal vivo. La slide del membro storico degli Eagles accentua le tonalità rock blues di "Freedom Overspill", irrobustite da un pungente ensemble di fiati a sua volta impreziositi dalla tromba di Randy Brecker. Un tonitruante, come suo solito, Steve Ferrone alla batteria e l’intensità della maga delle percussioni Carol Steele evidenziano ancora, se ce ne fosse bisogno, quanto la sezione ritmica sia di vitale importanza per questo ciclo innovativo. E nell’altra gemma "Split Decision", composta dal duo Winwood/ Walsh, si toccano vertici alti fin dal potente riff iniziale, a cui si somma il successivo gaudio di potersi trastullare grazie a “soli” formidabili, rispettivamente di synth e chitarra, rilasciati con grande generosità da ciascuno degli autori.
Se "Take It As It Comes" e "Finer Things" sono orecchiabili e profonde nello stesso tempo è merito del celebre liricista Will Jennings, che mette lo zampino in cinque degli otto brani in scaletta, fra cui quel piccolo capolavoro elaborato ai sintetizzatori dal titolo "Wake Me Up on Judgement Day". Dopo l’incipit orientaleggiante, la canzone si dipana ricordando i fraseggi del Clapton più pop vissuto sotto l’egida di Phil Collins e gode del contributo straordinario della sei corde di Nile Rodgers, personaggio indimenticabile per i suoi Chic, legato da una forte amicizia con Titelman e anch’egli straordinario produttore.
Non c’è un punto debole in Back in the Highlife, le tracce scorrono velocemente nonostante siano tutte superiori ai cinque minuti, lasciando l’ascoltatore ancora con l’acquolina…Pure la chiusura, infatti, è azzeccata, con la malinconica "My Love’s Leavin’" scritta a quattro mani con quell’istrione di Vivian Stanshall, qui stranamente romantico in un pezzo chiaramente autobiografico per Steve Winwood.
“…My love is leavin’me
But I’ll control my feelings
I find faith, healing
And I’ll find hope singing
The way is so long
But I’m going to be strong
Oh, what a turn around
Soon, someday I’ll be bound…”
“Il mio amore mi sta lasciando, ma controllerò i miei sentimenti, troverò fede, guarigione e speranza cantando/ La strada è così lunga, ma rimarrò forte/ Oh, che svolta, però presto, un giorno, sarò di nuovo legato”.
Archi e campane sintetizzate suonati da Robby Kilgore e Bob Mounsey regalano un’aura sognante alla canzone più diretta della raccolta che raffigura chiaramente la situazione sentimentale del musicista britannico. La fine della relazione con Nicole Weir e l’inizio di quella con Eugenia Crafton, che a breve diverrà la sua seconda moglie, segnano concretamente il periodo di registrazione dell’album anche se in quei giorni tale tumultuosa situazione rimarrà nascosta.
Ciò che qui preme sottolineare è il lato artistico-ispiratore della questione, al di là del gossip: questa situazione ha influito nella stesura dei brani e, come spesso capita, il tormento della fine di un amore e l’inizio di un’altra passione giovano in ottica compositiva.
In conclusione è verosimile che un insieme di fattori anche casuali abbiano permesso al disco di spiccare il volo, ma ingredienti analoghi non saranno sufficienti per moltiplicare il successo nelle pubblicazioni seguenti, senza la magica alchimia formatasi in quel particolare frangente. Infatti, dopo la fortunata idea di realizzare la compilation Chronicles (1987), “best of” della fase solista, e l’idillio di Roll With It (1988), con gran risultato di vendite, ma comunque inferiore qualitativamente a Back in the Highlife, solo tramite il latineggiante About Time (2003) vi sarà uno scossone importante dal punto di vista stilistico. In seguito giungerà il fiore all’occhiello della rinnovata collaborazione con Eric Clapton, sfociata nel noto fantastico live al Madison Square Garden e più avanti un altro pregiato lavoro dal vivo, Greatest Hits Live (2017) a suggellare una carriera formidabile, in cui il polistrumentista si è spesso distinto pure come session man, nei panni di special guest.
Oggi Steve Winwood è attivo, carico di vitalità, e, come sempre, adora le collaborazioni stimolanti e inusuali: recentemente è stato impegnato in tour con gli Steely Dan, mentre nel 2022 sarà in crociera con Joe Bonamassa per l’ormai mitico progetto Keeping the Blues Alive.
Un artista a tutto tondo, con una filosofia ben chiara che gli ha permesso costantemente di riprendersi dai momenti bui e tenere fede al suo ideale di musica.
“Non fatevi turlupinare dalla tipica frase d’incoraggiamento “credi in te stesso”. Perché continuano a ripeterla ai giovani? Non serve credere in se stessi se non si sa che si sta facendo. Una volta che si ha invece una visione di ciò che si desidera fare, a quel punto bisogna stringersi appassionatamente a questo ideale e averne fiducia. Credete nelle vostre idee, ecco questo è il punto e non è proprio la stessa cosa di quanto vi suggeriscono”.
Unico!