Chissà se in qualche altro pianeta o in qualche altra specie vivente esiste un fenomeno analogo. Da quarant’anni le sigle dei cartoni animati occupano un ruolo di ampio rilievo nella nostra cultura. Il che significa che, da quarant’anni, alcuni aspetti marginali di una forma di entertainment piuttosto marginale vengono di continuo riesumati dalla discarica dell’oblio che in contesti naturali si meriterebbero, per una serie di fattori che vanno da una società che non riesce a crescere a un’industria culturale alla frutta che raschia il fondo del barile, approfittandosi –giustamente – della domanda di una società che non vuole saperne di diventare adulta.
Volete qualche dato? I Subsonica cantavano una versione drum’n’bass della sigla di “Daitarn 3” nel 1998, ma una band in cui militavano alcuni loro membri, dal nome “Gli Amici di Roland”, è stata in attività dal 1995 con un repertorio che attingeva al suddetto genere. Il dibattito sulla voce solista della colonna sonora di “Jeeg Robot” appartenente o meno a Piero Pelù risale almeno a un lustro prima, quando i Litfiba hanno iniziato a scalare le classifiche rock nazionali. Questo significa che l’attenzione sulle colonne sonore dei cartoon anime è stata sempre piuttosto costante.
Poi è successo che l’Internet, il cui ruolo principale è quello di cristallizzare le peggio cose in un eterno presente digitale, ha ibernato tutto questo fenomeno traslandolo dalla generazione dei pionieri del web a quella dei millenials, tanto che nulla sembra essere cambiato, e oggi[1] esiste un unico pastone di reminiscenze condivise di cui beneficiano vecchi e giovani allo stesso modo, ciascuno ricreando il lungo o breve passato a suo piacimento e a seconda del vissuto individuale, reale o inventato o trasmesso o indotto o acquisito sui social media che sia, e che giustifica appieno il clamore che sta suscitando in questa fase, così liquida da sembrare sciolta, la pubblicazione di un intero album di sigle dei cartoni animati re-interpretate dalla loro cantante originale, Cristina D’Avena, con molte pop star italiane figlie della stessa fase così liquida da sembrare sciolta di cui sopra. Spero di essermi spiegato.
E se volete qualche altra pillola di psicologia sociale da tanto al mucchio, visto che tutti quanti siamo laureati all’università della vita, abbiamo passato un’infanzia talmente edificante che oggi è la società intera ad essere infantilizzata e l’infantilismo ha permeato l’economia, la politica, il costume e, su tutti, la cultura, tanto che viene da chiedersi perché non la facciamo finita tutti in blocco a trenta o quarant’anni (iniziate pure voi), se quello che c’è dopo non interessa più a nessuno e, a dirla tutta, è scomodo, dispendioso, antiestetico e una gran rottura di coglioni.
La storia del passato (ormai ce l’ha insegnato) è stata contraddistinta da una scarsissima attenzione per i più giovani, mandati in miniera o a mendicare con i fiammiferi da vendere, abusati e tirati su a schiaffoni nel migliore dei casi. Nell’era del benessere totale, invece, stiamo crescendo i nostri figli nella convinzione che loro siano i veri adulti e che la loro sia la fase principale della vita, la stessa che passa in un soffio e di cui poi dopo ti ricordi ben poco, giusto qualche sigla di cartone animato ma solo perché gente del calibro di Cristina D’Avena ci si deve sostentare. Così lei e le sua casa discografica – giustamente – raschiano il fondo del barile con trovate anche geniali come questa dei duetti, con la terribile conseguenza che a cinquant’anni ci viene riproposta, per l’ennesima volta, la nostra infanzia quando invece dovremmo concentrarci sullo scivolo privo di attrito che, da qui a chissà quanto (speriamo il più lontano possibile), ci inghiottirà nel posto o nel non-posto da dove siamo venuti e dove, si spera, non esisteranno i cartoni animati e le loro sigle; piuttosto, al massimo, qualche aria tratta da qualche operetta che piaceva tanto ai nostri genitori.
[1] Scrivo mentre giunge al termine la prima decade del mese di novembre 2017