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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
24/05/2021
Autori Vari
Auguri Bob
Per celebrare gli 80 anni di Bob Dylan, gli auguri personali di Luca Franceschini, Alessandro Vailati, Sara Fabrizi, Matteo Minelli, Nicola Chinellato e Massimiliano Manocchia.
di Autori Vari

Caro Bob,

Fa strano scrivere a qualcuno che non hai mai incontrato, che non incontrerai mai; qualcuno, oltretutto, che ha sempre comunicato malvolentieri in modo tradizionale, preferendo che fossero le sue canzoni a parlare.

Questa però è una ricorrenza importante, sei arrivato ad una fase della vita in cui, per forza di cose, si tirano le somme, e allora lascia che ti dica qualche grazie e qualche scusa.

Innanzitutto scusa se sono arrivato tardi a te, forse eccessivamente tardi, e per giunta nella maniera più prosaica che ci possa essere. Conoscevo già i tuoi classici, ovviamente, ma non mi ci ero mai fermato sopra. Poi, da springsteeniano integralista com’ero allora, scopersi quella cover di “Chimes of Freedom” che la E Street Band aveva preso in mano negli spettacoli del 1988 per Amnesty International, come messaggio di pace universale. Quella rilettura era splendida, mi colpì per la forza trascinante della musica, non tanto delle parole (perdonami se oso, ma credo che tu abbia scritto di meglio, sia prima che dopo), mi venne voglia di sentire l’originale (che non mi sembrò per nulla allo stesso livello ma diciamo che il tuo periodo acustico non l’ho mai amato più di tanto) e da lì partì tutto. Perché iniziamo ad ascoltare certi artisti piuttosto che altri, e per giunta solo in determinati momenti? Non lo so e non penso neppure che ti interessi la questione.

Scusa se non ti ho mai messo su un piedistallo. Ho guardato da un’altra parte, per la mia formazione, le band e gli artisti che ho amato visceralmente, che hanno plasmato i miei gusti, sono sempre andato a pescarle altrove. Ma non faccio neppure come chi, spesso con un vago senso di snobismo intellettuale, ti considera non indispensabile, sopravvalutato. Non posso vantare nessun legame affettivo con la tua musica, non posso metterti tra i miei artisti preferiti, sebbene possegga tutti i tuoi album (tutti tutti? Beh non proprio: diciamo che “Down in the Groove” non ho mai sentito il bisogno di comprarlo) e conosca, bene o male, tutte le tue canzoni. Per me, che di mestiere insegno italiano alle superiori, sei come Omero, Virgilio, Shakespeare e Dante: non li leggo tutti i giorni, non me li porto in spiaggia, non li anteporrei mai, nelle mie ore di relax, ad un qualsiasi romanzo di un qualsiasi autore che abbia voglia di leggere in quel momento; eppure, non penserei mai per un istante che un insegnante o un lettore appassionato possa prescindere da essi, possa permettersi di non avere letto tutto o quasi di loro. Ti si può non amare ma non ti si può trascurare: la storia della musica, tutta la storia della musica, anche quella più remota come percorsi intrapresi, non può prescindere da quello che hai fatto in questi cinque decenni da che pubblichi canzoni.

E quindi grazie. Grazie innanzitutto per avermi mostrato quanta potenza deflagrante possano avere le parole, anche se utilizzate all’interno di una canzone. La prima volta che ho ascoltato “Idiot Wind” ho capito davvero che si può amare e odiare una persona allo stesso tempo e che esiste una dimensione metafisica all’interno di ogni immagine metaforica, a patto che chi scrive sappia mostrare la porta che collega i due mondi. Quel pezzo per la prima volta mi ha spalancato all’immenso potere della tua parola, un potere che i più grandi simbolisti (penso soprattutto a Rimbaud, uno dei miei più grandi amori letterari) avevano già cercato di possedere e maneggiare ma tu sei riuscito a farlo senza staccarti dalla realtà sensibile; anzi, immergendoti ancora più profondamente in essa. “Idiot Wind” è così potente perché in quello scorrere impetuoso e disperato di parole, in quella rabbia che non sa celare il rimpianto, ho intuito che quella donna, Sara, che era ancora tua moglie quando le hai detto quelle cose, tu la amavi ancora; che era probabilmente la donna della tua vita. Non lo so, non voglio farmi i fatti tuoi, non voglio avere la presunzione di aver capito dinamiche che tu, con le tue azioni degli anni successivi, hai mostrato palesemente di contraddire, ma io credo che alla fine i tuoi demoni abbiano prevalso e che sia vero che lei, come dici verso la fine, abbia sì domato il leone nella tua gabbia, ma non sia stata in grado di cambiarti davvero il cuore. Ma è anche perché tu non lo hai voluto. Ha prevalso la tua natura, forse, o più probabilmente quell’immagine di eterno vagabondo che ti sei cucito addosso fin da quando bazzicavi i locali del Greenwich Village, e l’hai lasciata andare. Hai pensato forse che la felicità coniugale ti portasse per sempre via la creatività, hai pensato che alla base dell’arte ci deve per forza essere il dolore, e così l’hai lasciata andare. Un po’ come quando hai vissuto la tua “fase religiosa”, te lo ricordi? Quella cosa, che per primo teorizzò Greil Marcus, per cui avevi interpretato la conversione come un punto di arrivo e non come l’inizio di un lungo cammino e così la tua arte è divenuta noiosa. Non ne saremo mai così certi ma dopotutto è vero che le tue cose più belle, in quel periodo, le hai fatte all’inizio (anche gli atei e i materialisti più incalliti tra i tuoi fan guardano “Slow Train Coming” come uno dei tuoi capolavori) e alla fine, quando la ferita si era riaperta e stavi già guardando altrove (ovviamente sto pensando ad “Every Grain of Sand” ma quante canzoni straordinarie ci sono in “Shot of Love”, soprattutto tra quelle che all’epoca avevi lasciato fuori?). Però non è forse altrettanto vero che “New Morning” e “Planet Waves”, i dischi della serenità matrimoniale, pur non tra le tue cose migliori, sono lavori senza dubbio apprezzabili? Che un brano come “Forever Young”, al di là di certe eccessive cadute sentimentali, dice cose belle e vere, quelle che ogni figlio vorrebbe sentirsi dire dal proprio padre?

Forse è meglio smetterla di speculare, sono sicuro che se leggessi queste cose ti arrabbieresti. Hai fatto le tue scelte e solo tu sai il prezzo che hai dovuto pagare. E quindi, capirai, è inutile chiedersi se davvero “Most of the Time”, quattordici anni dopo “Idiot Wind”, parlasse ancora di Sara. Anche se io penso di sì, per quello che vale.

Grazie di non aver mai mollato, anche quando tutti dicevano che eri finito e sfornavi dischi che effettivamente erano tutt’altro che capolavori. Ma la grandezza di un artista, l’ho sempre pensato, si vede dal fatto che riesce sempre a darne prova, anche quando è da tempo lontano dalla sua fase di massima creatività. È più che ovvio pensare a “Oh Mercy” e a “Time Out Of Mind” che, anche grazie al lavoro pazzesco di Daniel Lanois, ti hanno riportato ad un livello qualitativo che non si vedeva come minimo dai tempi di “Blood On The Tracks”. Quei dischi sono pazzeschi ma è troppo facile aggrapparsi a loro. No, io parlo di robe tipo “Knocked Out Loaded” o “Street Legal”, titoli che nessuna retrospettiva della tua discografia prenderebbe mai neanche lontanamente in considerazione, titoli che qualunque narrazione sulla tua carriera, anche quelle più agiografiche, considerano ben lontani dal tuo periodo più fecondo. Ecco, però sul primo c’è “Brownsville Girl” che va bene, l’avrai pure scritta con Robert Hunter però ragazzi, che pezzo è?

Ma a “Street Legal” io ci sono davvero affezionato. Te lo ricordi, “Street Legal”? L’hai registrato in fretta e furia, con musicisti appena reclutati, con arrangiamenti quasi del tutto improvvisati, con le coriste che andavano fuori tempo perché non sapevano le parti ma tu non reputasti necessario fare altre take. Eppure io quel disco lo amo. Non tanto perché l’hai pubblicato nel mio anno di nascita (me ne sono sempre fregato di certe ricorrenze sentimentali) quanto perché ci sono dentro due pezzi che non solo sono tra i miei preferiti di sempre del tuo repertorio ma che sono tra quelli che ho ascoltato di più in assoluto, in tutta la mia vita. Il primo è “Changing of the Guards”, che apre il disco. Che tiro, che ha, che piglio melodico! Anche con la band che suona da cani, si capisce lontano un miglio che eri ispiratissimo, quando l’hai scritta. E poi quel testo: che cosa vuol dire? Di che cosa parla? Credo sia tra le tue liriche più criptiche, eppure è uno di quei casi in cui è evidente che il punto non è capire quel che dici ma lasciarsi stupire dal modo in cui metti insieme le parole dando forma e concretezza alle tue visioni.

E poi c’è “Senor”, che ha quel sottotitolo, “Tales From The Yankee Power”, che è così esplicito ma che ne accresce il fascino e aggiunge mistero al contenuto. “Senor” a parere mio è un brano meraviglioso, è uno di quei momenti incredibili in cui è uscito nuovamente fuori il tuo genio, come quando nella seconda metà degli anni ’60 infilavi un capolavoro dietro l’altro. Ballata struggente, a tratti quasi disperata, che unisce la dimensione esistenziale a quella politica rifuggendo da ogni tentazione retorica ed emanando anzi un’oscura aurea apocalittica. Ecco, io credo che sia questa la prova più significativa che sei uno dei più grandi: non che hai scritto “Like a Rolling Stone” o “Sad Eyed Lady of the Lowlands” ma che in uno dei momenti più bui della tua carriera, hai comunque tirato fuori una “Senor” o una “Changing of the Guards”.

E grazie, infine, per non essere mai diventato quello che tanti dei tuoi fan avrebbero voluto. Grazie per non avere infarcito i tuoi concerti di classici, per avere stravolto i pezzi più famosi fino a renderli irriconoscibili, per non avere mai organizzato concerti acustici “in onore dei vecchi tempi”, per avere registrato tre dischi (di cui uno triplo) di brani di Frank Sinatra e per aver fatto cinque anni di tour proponendo bene o male sempre la stessa setlist infarcita di cose recenti. Grazie perché hai sempre voluto uccidere il tuo mito, perché hai sempre amabilmente sfanculato chi ti identifica solo con quello che hai fatto negli anni ’60 e gode ancora a leggere un Luzzato Fegiz qualunque che ti chiama “il menestrello di Duluth”; grazie perché non sei diventato come Bruce Springsteen, che accetta i cartelli con le richieste e fa salire sul palco i bambini. Grazie perché i tuoi ultimi due dischi sono lunghi, scuri, ostici e bellissimi, pur con arrangiamenti poco curati e una produzione che, scusami se te lo dico, fa abbastanza pena. Grazie, in sostanza, perché hai fatto sempre quello che hai voluto, perché hai sempre preteso che fosse il pubblico a doverti seguire e non viceversa.

Tanti auguri per i tuoi 80 anni, Bob. Non credo che verrò più a vederti dal vivo, anche se conservo ricordi molto belli dei tuoi concerti a cui ho assistito (vuoi sapere il migliore? A Melbourne nel 2014, in un teatro del XIX secolo, pagando il biglietto un occhio della testa perché erano rimasti solo i posti davanti ma Dio mio, quanta bellezza quella sera!). Te ne auguro ancora tanti, di concerti. Più di trent’anni fa hai imboccato la strada di quel famoso tour infinito che tanto affascina i tuoi biografi. La strada è sempre stata la tua vita e da quella strada, immagino, ti staccherai solo per prenderne una più grande, quella su cui alla fine, volenti o nolenti, ci ritroveremo tutti. Tanti auguri, Bob. Ti vorrei regalare queste parole di un grande artista italiano, Emidio Clementi. Non è al tuo livello, ovviamente, ma è uno dei migliori che abbiamo ed è uno di quelli che amo di più. Vengono da un pezzo dei Massimo Volume che s’intitola “Le nostre ore contate” e che finisce così: “Io non ti cerco, io non ti aspetto, ma non ti dimentico”. Grazie di tutto, davvero.

Luca Franceschini

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Questa lettera nasce da un sogno ed è un po’ stramba come sono tutti i sogni, o perlomeno i miei.  Bob Dylan ed io eravamo a Hibbing, nel Minnesota, luogo in cui è cresciuto, il giorno del suo ottantesimo compleanno, lui era in giardino sulla sedia a dondolo e imbracciava una chitarra, mentre io gli parlavo. Stava cantando My Back Pages e ogni tanto comparivano mio padre e mio figlio che danzavano abbracciati.

Qualcuno probabilmente poteva pensare di organizzarti una festa come quella del 16 Ottobre 1992 al Madison Square Garden per i trent’anni di carriera. Forse un compleanno, però, è un’occasione che merita qualcosa di più intimo. Sicuramente sarebbe stato stupendo rivivere quei magici momenti, ma, come scrivesti tu, “i tempi stanno cambiando”, anzi sono proprio cambiati e non sarebbe più come prima. Quando si dice che si prova nostalgia di un periodo, non di un tal posto, ecco…

Ho provato a immaginare quale regalo ti piacerebbe ricevere.

Probabilmente hai già tutto quello che ti si potrebbe donare, così ho pensato a qualcosa di speciale.

Ho deciso che mi baserò sulla semplicità e sui sentimenti, come mi hai insegnato tu in alcune canzoni.

“Mia nonna disse: Figliolo, vai e segui il tuo cuore

e sarai contento alla fine del percorso

non è tutto oro ciò che luccica

non separarti mai dal tuo vero amore”.

(Da Going, Going, Gone).

Ebbene voglio regalarti tre sorrisi, di persone fortunate che hanno potuto ascoltare la tua musica e, appunto, sorridere felici, non separandosi mai dal vero amore…

Un nonno, un padre e un figlio, tre generazioni, tre diversi modi di interpretare e vivere la vita, ma che la musica ha riportato nella culla della felicità, là dove siamo nati al tempo, “where we were born in time”

“In alto, nelle colline del mistero,

nella confusa ragnatela del destino,

puoi avere ciò che resta di me,

là dove siamo nati al tempo…”

(Da Born in Time).

Perché in fondo, Bob, la gioventù è un’opinione, non è altro che un contenitore di stimoli e sogni, ma la forza per provare a realizzarli non ha età, che tu sia nonno, padre o bambino…

“Che le tue mani possano essere sempre occupate

che il tuo piede possa essere sempre veloce

che tu possa avere delle solide basi

quando i venti del cambiamento soffiano

che il tuo cuore possa essere sempre gioioso

che la tua canzone possa essere sempre cantata

che tu possa restare per sempre giovane

per sempre giovane, per sempre giovane

che tu possa restare per sempre giovane.”

 (Da Forever Young).

 

Buon compleanno Bob!

In un flash rivivo l’ultima immagine del mio sogno. C’è lui, sorridente, con il cappello in testa, come nella copertina di Desire, mentre canta:

“Ah, but I was so much older then,

I'm younger than that now.”

 

 “Ah ero molto più vecchio allora,

sono più giovane di allora, adesso.”

 

Un abbraccio

Alessandro Vailati

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Per quando ascoltai per la prima volta Shelter From The Storm e mi sentii consolata e cullata come poche volte in vita mia. Così approfondii fino a scoprire quel capolavoro di sofferenza e catarsi che è Blood On The Tracks.

Per quella volta che sentendo forte le ingiustizie sociali che ancora gravano sul mondo trovai in The Lonesome Death Of Hattie Carrol il più bello e commovente urlo di denuncia della storia delle canzoni di protesta.

Per quella volta che Fourth Time Around mi aiutò ad accettare il fatto che l’amore è fortuito ed irrazionale e che io contro quel sentimento non potevo proprio niente.

Per quella volta in cui ascoltando Sad Eyed Lady Of The Lowlands capii quanta sacralità può esserci in alcuni sentimenti e pensai che doveva essere un onore fin troppo pesante da accettare l’essere l’oggetto venerato nella ballad.

E quando ascoltando, mentre guidavo, Like A Rolling Stone compresi che tutte le mie paure più stupide erano superate e mi sentii libera, felice, capace.

Quando col sorriso stampato in faccia mentre mi preparavo il pranzo con Queen Jane Approximately a tutto volume, accettai ogni stortura e stonatura della vita come un’insolita occasione di affermazione individuale.

Quando ascoltando Jokerman trovai meraviglioso che in quell’accattivante brano dal sapore reggae tu passassi in rassegna la tua gloriosa fase dei sixties, prendendoti anche in giro con piglio leggero. Che poi quell’inserto di armonica a chiusura del pezzo diceva chiaramente che tu eri sempre tu.

Quando il mio migliore amico alla notizia del tuo Nobel me lo comunicò prima che io potessi leggerlo da qualche parte e sono stata felice e in lacrime per giorni.

Quando ti ho visto la prima volta in concerto e mi sono sentita parte della storia sociale e culturale del XX secolo. Quando più di recente ti ho visto per la seconda volta e il tuo nuovo mood raffinato e jazzarolo mi ha conquistata (a me che il jazz non piace molto). E c’era seduto vicino a me quel ragazzo che di te ne sapeva più di me ed è stato un magnifico momento di condivisione ed arricchimento. Io non gli ho chiesto né come si chiamasse né un contatto, lui nemmeno a me. Ed è andata così, peccato, alla Simple Twist Of Fate.

Quando ogni volta che guardo la copertina di The Freewheelin’ resto incantata e penso alla fortuna di quella Suze Rotolo, musa di quella struggente e spettrale Girl From The North Country che nel duetto del ‘69 con Cash è ugualmente bella, ma la prima versione è da sospiri nella notte.

Quando ascoltando live una band, in un locale che per quasi 10 anni è stato il mio punto di riferimento, questa propose una cover micidiale di Maggie’s Farm ed io non stavo più nella pelle constatando quanta presa abbiano le tue canzoni, anche quelle meno mainstream.

Quando collezionando i tuoi studio album mi sono sentita la persona più ricca del mondo.

Quando ho comprato e divorato i libri che parlavano di te.

Quando scoprii che Mr Tambourine Man faceva impazzire anche quel ragazzo che con me non aveva nulla in comune, eppure un po’ ci siamo voluti bene.

Quando me ne infischio di doverti difendere dai tuoi detrattori e pseudo haters.

Quando mi iniziai ad interessare a te, leggendo di sfuggita un articolo sulla tua carriera su una rivista che mi pare fosse la “poco culturale” Tv Sorrisi e Canzoni.

Io ti ho scoperto da sola, per caso quasi, senza influenze di tipo genitoriale o amicale. Ed è forse anche per questo che ti sento così mio, come una passione che mi sgorga da dentro e per questo primitiva a pura.

Per tutte queste volte che ho elencato, e per molte altre che ora mi sfuggono e che mi farebbero dilungare troppo, tanti auguri per i tuoi 80 anni Mr. Zimmerman. Sei parte integrante della storia sociale, culturale e musicale del XX secolo e anche del XXI. Hai definito il mio pubblico e il mio privato, rafforzando i miei valori su ciò che è giusto, umano e desiderabile con tutto il suo corredo di luci e ombre. E mi hai fatta sentire infinitamente meno sola, compresa, partecipe. Hai compiuto insieme il miracolo della Letteratura e il miracolo della Musica.

Behind every beautiful thing there’s been some kind of pain”, ce l’ho sempre impresso in mente, come un mantra, non temere.

Sara Fabrizi

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Bringing it all back Bob.

“La celebrità esige ogni eccesso, intendo la celebrità vera, che è una fluorescenza divoratrice e non la sobria rinomanza degli statisti sul viale del tramonto o dei sovrani dal mento sfuggente. Per celebrità intendo lunghi viaggi in uno spazio grigio. Intendo il pericolo, il confine di tutti i vuoti possibili, un uomo che impone l’erotismo del terrore ai sogni della Repubblica. Sforzatevi di comprendere l’essere costretto ad abitare regioni così estreme, mostruose e vulvari, impregnate di memorie di violenze. Anche se per metà folle, quest’uomo viene riassorbito dalla follia totale del pubblico; anche se perfettamente razionale, burocrate dell’inferno, genio tacito del sopravvivere, sa già che verrà distrutto dal disprezzo, tipico del pubblico per i sopravvissuti. La celebrità, questo tipo particolare di celebrità, si nutre di oltraggi, di quello che i consiglieri di uomini di statura ben minore definirebbero pessime relazioni pubbliche; scene isteriche dentro limousine, fan che si accoltellano, rocambolesche cause legali, tradimenti, pandemonio, droghe. Forse l’unica legge naturale connessa alla celebrità vera consiste nella sicurezza che il celebre, prima o poi, è costretto a suicidarsi”. (Don DeLillo, Great Jones Street, 1973)

“…è bello sapere che lui è in giro, che la prende come viene per noi peccatori” (Lo Straniero in “The Dude Lebowski” - Coen Brothers, 1998)

Grazie Bob per essere rimasto in giro per tutto questo tempo.

With Love. Matteo

Matteo Minelli

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Minchia, Bob, ottant’anni!

Com’è possibile sia passato così tanto tempo? Questo tempo maledetto, che scorre rapido e imprendibile, che ci sfugge tra le dita come acqua corrente e che c’inchioda, compleanno dopo compleanno, alla nostra finitezza umana. La fregatura, caro Bob, è che noi, io e te, accumuliamo anni, rughe e stanchezza, ma restiamo eterni ragazzi. Colpa della musica, temo, che ci fa sentire per sempre giovani, come recita quel tuo brano famoso, a cui sono affezionato più di qualunque altro. La musica, che apre il nostro mondo ai ricordi, e ci riporta indietro, nel passato dei nostri vent’anni, e poi, di nuovo avanti, nel futuro, spinti da un desiderio inesausto di nuove canzoni, da scrivere e ascoltare. Per sempre giovani, Bob, anche se tu oggi ne compi ottanta, e quel tuo viso perennemente imbronciato è solcato di rughe, una per ogni nota che hai scritto.

Ti ricordi la prima volta che ci siamo visti? Probabilmente no, di acqua ne è passata tanta sotto i ponti, e io ero solo un volto nella moltitudine. Era il 24 giugno del 1984, e per me fu un giorno indimenticabile. Eravamo a San Siro, e tu eri là in fondo, sul palco, la materializzazione della leggenda in un brulicare di anime, accorse a renderti omaggio. Io c’ero, giovanissimo, pieno di vita e di speranza, innamorato della tua voce sgarbata, grato per come le tue parole e le tue canzoni sapevano indicare la strada al mio passo incerto di diciottenne ed erano diventate il mio personale abbecedario di saggezza, di rabbia, di passione.

Prima di te, suonò quel giovane ragazzo napoletano che sapeva maneggiare il blues come un nero, e poi, un altro fenomeno, quell’incredibile chitarrista che aveva portato un angolo di Messico nel rock ‘n’roll e nella storia. Io, però, avevo occhi solo per te, bramavo di vederti e ascoltarti, il cuore in tumulto, le mani sudate dall’emozione.

E poi, finalmente…eccoti, un puntino lontano, eppure immenso e luminoso, come può esserlo una vita intera. La mia, la tua.

Ti ricordi come iniziasti? Io la tripletta iniziale, la ripeto ancora oggi come un mantra di gioia inarrivabile: Highway 61 Revisited, Jokerman e All Along The Watchtower. Non so se tu potrai mai comprendere l’effetto che fece su di me quell’inizio folgorante. Mi facesti piangere d’emozione e creasti un ricordo tra i più dolci di sempre. Apristi la strada al mio futuro, con la certezza, divenuta improvvisamente tangibile, che tu saresti stato al mio fianco, ad aiutarmi, in eterno. Passato e futuro, indissolubilmente legati. E’ il dono della musica, Bob, quel sentirsi per sempre giovani, che a diciott’anni ancora non comprendi, perché giovane lo sei già, e che oggi, invece, rappresenta la certezza e il faro nella notte di una vita che non va sempre come vorrei.

Non voglio, però, rubarti altro tempo, Bob: oggi, per te, è un giorno speciale, avrai candeline da spegnere, mani da stringere, abbracci da ricevere, telefonate a cui rispondere. Ti lascio qui i miei auguri e spero, per me, per te, che ci siano, in futuro, tante altre canzoni da condividere e nuove strade da percorrere insieme.

Grazie di tutto.

Minchia, Bob, ottant’anni! Ti rendi conto?

Nicola Chinellato

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In Onirico Onanismo o Ermetica Sintesi– tu sei quello che sogni? – Woody concepì R.W.P. tracciando una Stella di David su pentagramma, sotto lo sguardo dell’unico impavido/improvvido rimasto a chiamare mamma una mamma, papà un papà, a non accettare la rima Tradizione/Fazione – hai rubato conservando e conservando hai innovato: la danza sul ciglio finto nella trasmissione di Maria – Bob/jukebox di cristallo, re ferito re incompreso re o giullare camuffato che protesta contro la protesta, che resta anche dopo la festa perché la verità è scritta nel Boccalibro del Falcone – ma quanto sono fiche le porcherie corrette del politicamente non detto e l’onanismo atmosferico dei diritti dirottati, del terrorismo da salotto – raccontami di crow jane soffocata da una boccata d’amore, sì e comunque il settimo giorno non è andata esattamente così, pare che Egli creò non solo te ma anche D.B, P.R.N, L.R. S.P.M, J.H. e insomma nel Suo DNA c’era più rock che folk, il cielo minacciava pioggia. “che confusione!” dissero tutti quelli che non credevano nella confusione dello scalpiccio limaccioso. votati al martirio s’appagano i figli della sorte quando appena li sfiora Morte che attanaglia le viscere prima di sfondarle; pulcini nel palmo delle mani, le strane varianti del domani filtrate dal giogo della ragione, pigolano ancora caldi di fame e pulsano. un passo, due passi e già si è persa l’origine, la sintassi che fa da trama: è così che il giusto che si crede giusto sacrifica al giusto l’amore e cede all’inferno della mediocrità. poi, come pietre irrotolanti, contemplare lo scorrere del tempo – ma il tempo non è che l’infinito che per un momento si contempla.

ecco, un buon orecchio attento: questo serve per non farsi uccidere dal ticchettio ipocrita e fraudolento. anoressica, la coscienza non digerisce gli zeri: ogni verità è indegna d’esser tale. vili siamo se da queste invalicabili vette che tremano d’affanni guardiamo il mondo e non ne cogliamo l’inelegante caducità.

e allora, Zimmy, per concludere, lasciami citare dalla prima lettera del Conte di Saint-Germain, quella che dice: in via del tutto sperimentale, prima del cerimoniale, mi sono ritagliato uno spazio nel non-tempo – dovrò pur testare il Nulla prima di capire con che cosa l’Ingenerato l’ha riempito. con ordine: egli (meglio: Egli) si è pensato (se si sia anche colto nell’atto di pensarsi non ci è dato sapere – ma) e pensandosi ha generato l’idea di Se Stesso. una manifestazione potenziale, insomma, del divino impersonale, dalla quale, se non erro, ha creato la decisione di essere. successivamente, certo. si è guardato. ha affermato: IO SONO. e la logica? IO SONO l’Ingenerato. siamo dunque nati da una contraddizione, da un’idea di noi stessi in embrione o dal furore di un errore? comunque sia, il Generato non riusciva a vedere se stesso (cioè l’Ingenerato) perché nel preciso istante in cui si contemplava, si accorgeva che IO non SONO più. riassumo (correggimi). l’Ingenerato generò il Generato ma ogni volta che cercava di contemplarsi ridiventava Ingenerato: il c’è-non-c’è.

 

Attendo, Maestro carissimo, gentile aperto universale riscontro e, nel frattempo, sii calmo e sappi: IO sono IO. per il momento, almeno…

 

Distanti saluti e Nobel Oblige

Massi il tarantulato

(L’addetto ammesso alle luci che vive seguendo i consigli che hai dato a Geraldine per il suo eterogeneo compleanno)

Massimiliano Manocchia


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