I Sigur Ros sono tornati, e per il sottoscritto, così come per tanti altri appassionati alla musica della band islandese, questo ascolto è uno dei momenti più emozionanti dell’anno. Anche perché l’attesa è stata lunga, quasi snervante.
Nel maggio del 2012, i Sigur Ros hanno pubblicato Valtari, un album che suonava come una valanga al rallentatore, mentre l’anno successivo, precisamente nel giugno del 2013, sono tornati nuovamente con Kveikur, un disco dal mood più oscuro, ma anche più elegante e più orientato all'elettronica. Si trattava di due album concepiti a soli tredici mesi di distanza uno dall’altro, Lp veri e canonici, non il tipo di progetti paralleli e lavori di breve durata che, invece, hanno punteggiato il decennio successivo. Due dischi splendidi, non capolavori rivoluzionari come Ágætis Byrjun, ma che comunque rappresentavano alla perfezione la proposta di post-rock ultraterreno su cui i Sigur Rós hanno creato la propria fama.
Poi, all’improvviso, qualcosa è cambiato. Non è che i Sigur Ros non facciano nulla da dieci anni. Dal 2013, i fan sono stati accontentati da un flusso costante di nuova musica: esperimenti formali, colonne sonore dance, dischi dal vivo, un album solista di Jónsi, pubblicazioni estemporanee di singoli o ep. L’impressione, però, è che la band stesse vivendo un momento di stasi, una sorta di afasia artistica, perché quelle pubblicazioni non erano completamente convincenti, suonavano più come cose fatte per aspettare il momento giusto per ripartire. Forse stavano aspettando il ritorno del polistrumentista Kjartan Sveinsson, che è rientrato nella line up dopo aver lasciato la band nel 2012; o forse, cercavano semplicemente di rielaborare una sorta di lutto, nascondendosi dal clamore, dopo che il batterista Orri Páll Dýrason fu costretto a lasciare la band a causa delle accuse di violenza sessuale.
Indipendentemente da come siano arrivati fin qui o dal motivo per cui ci è voluto così tanto tempo, Atta segna la ripresa dei Sigur Ros come unità creativa vitale. Il loro primo vero album in dieci anni è stato creato consapevolmente per evocare al meglio un marchio di fabbrica che ha pochi eguali al mondo. Un disco, questo, che nasce dal desiderio di catturare un senso di speranza di fronte al malessere pervasivo, di spostare la propria attenzione dal mondo esterno alla forza interiore che vive in ciascuno di noi, facendo quello che Jonsi e compagni sanno fare al meglio: far scaturire nel cuore degli ascoltatori emozioni universali e profonde, con lo scopo di trascendere la banalità del reale attraverso un gesto musicale epico, grandioso, ultraterreno.
Atta è un disco che suona decisamente più scarno degli ultimi predecessori, è fluttuante e ipnagogico, tanto da azzerare quasi completamente il concetto di canzone. I Sigur Ros, nelle dieci tracce in scaletta, spingono il loro post-rock verso una forma più fluida di composizione neoclassica, abbandonando quasi del tutto la batteria (perché nella formazione non esiste più un batterista) e ogni vestigia della musica rock in favore di uno spettrale movimento orchestrale che, forse, mai come prima, suona come la colonna sonora di un film.
A prescindere, però, da ogni altra considerazione, ciò che davvero conta è la meraviglia e l’impatto emotivo: ogni canzone di Atta, sotto questo aspetto, è devastante, colpisce allo stomaco e alla gola, suggestiona e commuove.
L’iniziale "Glóð" suona come un'ouverture che richiama i giorni di gloria della band, è costruita attorno a una sezione d'archi che ricorda Ágætis ed è immersa in una luce celestiale, che evoca una musica composta per gli angeli. La desolazione che permea "Ylur" richiama, invece, il fraseggio verbale e melodico di molti brani di ( ), l’aggraziata "Skel" cresce d’intensità man mano che procede, e il falsetto di Jónsi s’impenna come se stesse scalando la cima di una estatica sinfonia, mentre la conclusiva 8 si muove attraverso cristalleria folk, per poi elevarsi ancora ad altezza delle stelle. E quando il disco finisce, tutta questa melodia, quasi inafferrabile, lascia nelle orecchie l’eco di uno splendore che solo pochissimi artisti al mondo possono eguagliare. Ogni canzone in scaletta meriterebbe una menzione a parte, ma, francamente, avrebbe poco senso. Atta è un disco che va ascoltato come un unicum, perché possiede una coerenza estetica e sostanziale che lega indissolubilmente ogni singola parte di un’opera che, in assenza di ritmica, fluisce come un lungo fiume, alla cui corrente non bisogna opporre resistenza, facendosi trascinare con dolcezza fino alla foce.
Un disco facile da apprezzare, ma difficile da comprendere davvero, emotivo in un modo che sfugge a ogni regola convenzionale, ma anche disincarnato, quasi olografico, e quindi, in qualche modo, impalpabile. Poco importa, perché chi ama i Sigur Ros trova qui una scaletta che non fa rimpiangere i loro lavori migliori, chi non li sopporta avrà un altro motivo per tenersi a distanza, mentre per i neofiti, quelli che si affacciano per la prima volta su questo maestoso scenario islandese, il consiglio è di non opporre resistenza e di abbandonarsi al flusso: c’è abbastanza bellezza da riempire il cuore da oggi fino alla fine dell’anno.