I riferimenti all’India, alla sua religione e alle sue divinità, sono una costante dei dischi dei My Sleeping Karma, band tedesca attiva dal 2006 e giunta, oggi, a pubblicare il sesto disco, il primo dopo sette anni di pausa. Se l’India vive nei titoli degli album e delle canzoni del gruppo teutonico, la musica, però, è quanto di più lontano possa esserci dalle sonorità che si ascoltano nell’esotica nazione asiatica. I My Sleeping Karma, infatti, sono una rock band che ha plasmato negli anni un ibrido in cui confluiscono psichedelia, stoner, post rock e schegge di metal. Basso, batteria, chitarra, tastiere, niente cantante e tanto groove.
Atma, che nell’induismo è il termine per indicare l’anima, nasce dopo un lungo iato, in cui la band aveva completamente perso l’ispirazione e la voglia di suonare. Piano piano, il gruppo è tornato in studio a registrare, partendo da abbozzi di idee, che lentamente hanno preso la forma di sei lunghe canzoni, caratterizzate dal consueto mood ipnotico, in perfetto equilibro fra momenti distesi, quasi cinematografici, e improvvisi uragani elettrici.
Il disco si apre con i nove minuti di "Maya Shakti", un fiume sonoro che fluisce tra profondità cavernose ed emerge spazi immensi di accecante bagliore. "Prema" è un’estensione della canzone precedente, una variazione sul tema, in cui è ancora la chitarra a indicare la strada, un percorso, questa volta, quasi sospeso a mezz’aria. "Mutki", la più breve del disco, coi suoi sei minuti e quaranta, suggerisce un senso di estasi e di meraviglia, "Avatara" è come perdersi in un bosco, trasmette una sensazione di pericolo, ma di un pericolo eccitante, di quelli che spingono all’esplorazione, alla scoperta. Si percepisce che qualcosa sta per succedere, qualcosa di buono o di cattivo sta arrivando col vento, che soffia insieme a un incredibile lavoro della sezione ritmica. "Pralaya" è probabilmente il brano concettualmente più semplice da interpretare, è cupo, si muove nel profondo, ha connotati goth ed evoca qualcosa dei Tool. "Ananda" e il suo carico di instabilità e disagio, chiudono un disco impervio e poco lineare, ma decisamente suggestivo.
Resta, però, una sensazione di incompiuta, quel retrogusto che ti fa dire che forse si poteva fare meglio, che non tutto è sviluppato come avrebbe potuto. Per carità, Atma è un album che formalmente non fa una piega, che si ascolta e si riascolta volentieri, trascinando l’ascoltatore in un vorticoso fluire di groove. Eppure, l’impressione finale, è che l’idea di base sia sempre la stessa, e che la band viaggi con il pilota automatico, senza grande pathos, senza scarti dal prevedibile, senza impennate di genio. Buono, ma con riserva.