A furia di dare nomi ed etichette a generi, cantanti e canzoni, ci dimentichiamo che soul, letteralmente, significa anima. Musica e parole che vengono da dentro e prendono una forma a cui poi non si può far altro che attribuire un termine così. L’anima non è rumorosa, caciarona, elettrica, superficiale. Ha ritmi downbeat, è elegante, è profonda, sposta il corpo lentamente senza fretta di posarsi, produce bassi cupi, si avvolge di elettronica, si nutre di sensualità per abbattere il divario con il mondo della carne. Dovremmo fare più attenzione, di fronte a un disco di soul. C’è l’anima di qualcuno registrata tra quei solchi. C’è qualcosa di intangibile che ci parla. E oggi, ai tempi di Solange e FKA Twigs, la bussola del nu-soul più sperimentale punta dritta verso Los Angeles, base operativa di Brittney Parks, artista nata a Cincinnati che ha scelto il nome d’arte di Sudan Archives.
Afro nel nome, americana nello stile, universale nel linguaggio. Le teorie che riconducono le origini della cultura classica a radici afroasiatiche non sono una novità e, nel nostro piccolo, gli Almamegretta ce lo ricordavano già ai tempi di “Lingo”, citando il saggio di Bernal e cantando che era proprio la dea Atena ad avere la pelle scura. Il centro del mondo è l’Africa. È da lì che deriva il tutto. I cultori del genere seguono le tracce di Sudan Archives dal continente madre che l'ha ispirata sino ai due EP che hanno raccolto la manciata di singoli pubblicati dal 2017 a oggi. Pettinature voluminosissime e l’inconfondibile violino, valore aggiunto e protesi artistica di una cantante-autrice tra le più innovative del panorama black.
Se vi chiedete come sarà l’r&b tra dieci anni, ora che ogni interprete porta in alto ambiziosamente l’asticella dell’originalità, “Athena” è un affidabile segno premonitore, un album caratterizzato da tracce ammalianti e una produzione di altissimo livello. Ma non c’è niente di forzato e di artificiale, per non parlare di quel modo commerciale di rivestire la personalità femminile costruito con l’obiettivo di conformarne il linguaggio con l’immaginario diffuso della cultura afroamericana. Non a caso, a venticinque anni, è Brittney Parks a escludere in partenza che il pop sia il suo vantaggio competitivo. Semmai una personalità musicale unica, gusto sopraffino e songwriting senza confronti.
Rispetto alle composizioni degli esordi, in “Athena” siamo di fronte a opere mature in cui produzioni e cameo si limitano a sottolineare l’efficacia della visione artistica della cantante. La matrice r&b e il violino, imparato da autodidatta e che richiama le tradizioni sudanesi, si mescolano alle influenze musicali con cui Brittney è cresciuta. Dal jazz al folk irlandese, passando dal trip-hop (evidentissimo nel disco, soprattutto in “Stuck”) e alla sperimentazione elettronica. E non fraintendete l’impiego di uno strumento solista così caratterizzante, anche se la presenza di un titolo come “Black Vivaldi” sembrerebbe dimostrare il contrario. I loop di violino sono dosati con grazia, come nei singoli “Confessions” e “Glorious”, e i pizzicato ritmici risultano tutt’altro che invasivi.
“Athena”, nel suo insieme, è un album pensato come dichiarazione intima per sensibilità attente e non per ascolti di massa. Un punto di arrivo, tanto da comprendere il rifacimento di un’acerba composizione adolescenziale come "Did You Know" come intro del disco e come punto di partenza per fare un po' d'ordine e guardare all’orizzonte di ispirazioni, stati d’animo e tutto quello che la vita riserverà a un’artista così promettente. Trovare così tanta personalità in un disco d’esordio non è cosa comune. Il progetto Sudan Archives si manifesta così in una delle produzioni più coinvolgenti dell’anno, il disco di un vero talento che non ha eguali nella ricerca, nel dettaglio e nella sofisticatezza degli arrangiamenti - curati in prima persona - per uno stile davvero sorprendente.