“Let's take our place at the back of the bus.
Erase all the lies we've been told.
Shoulder the load of those that are dear
and look to the days to come.
Someday soon, someday soon”
(Cowboy Junkies, "Someday soon")
Un messaggio poetico descritto per immagini. C’è una lunga corda tesa lungo la copertina e il booklet del disco. Sul fronte un nodo a forma di cuore, negli interni, ai capi estremi, una mano giovane da una parte e una raggrinzita dall’altra. Sul retro la corda spezzata, il tutto su sfondo bianco. Metafora di vita, di morte e del panta rei, del tutto che scorre, per dirla con Eraclito. At the End of Paths Taken rappresenta, dopo l’inarrivabile The Trinity Sessions, un altro brillante capitolo dell’epopea dei fratelli Margo, Michael e Peter Timmins dal Canada e della loro immarcescibile creatura, i Cowboy Junkies.
L’album ha tutto il calore avvolgente di un classico del genere folk, tuttavia con una gamma sonora e timbrica ben più articolata. Prendiamo “It Doesn’t Really Matter Anyway”: sussurri vocali, batteria ampiamente riverberata e sound di basso rotondo (come non citare “motorino” Alan Anton!) che sanno quasi di trip-hop, confluiscono in sezioni orchestrali. Ma già la traccia successiva, “Blue Eyed Saviour” rientra nei canoni di un concerto unplugged tra chitarre acustiche (Michael Timmins al solito geniale), tamburello e una timida linea di basso a sostegno ritmico.
At the End of Paths Taken si conferma un album crepuscolare e imprevedibile, da gustare con calma in ogni sua piccola parte. Si parte con la disincantata opener “Brand New World”, che inizia con la descrizione della triste realtà vissuta dai quarantenni e dalla quale si vorrebbe fuggire (“Mouths to feed. Shoes to buy. Rent to pay. Tears to dry. I can’t relate”) al colpo di scena finale di “My Only Guarantee”, ove emerge la volontà di non mollare mai (“A bigger wish I've never known. A bigger question I'm trying to hone. My only guarantee: I will fuck you up).
In mezzo vi sono i dilemmi mai sopiti di “Still Lost”, la meraviglia, l’ansia e i timori di essere genitori di “My Little Basquiat”, un brano sempre in mutamento con quel groove ipnotico e vagamente sinistro. La narrazione diviene epica in “Follower 2”, in cui si traccia l'evoluzione da padre a figlio, con il figlio che diventa poi padre. La chiusura “Here I will always be, behind you, and I will never go away” è una perfetta sintesi del passaggio generazionale, ripreso nelle melodie ondeggianti di “Mountain”, fino al gemito finale della dolce Margo Timmins, “Can someone tell me how this mountain got so high?”.
Percussioni taglienti e ossessive lasciano spazio a ritmi riflessivi passando da “Cutting Board Blues” a “Spiral Down” e “Someday Soon”, nelle quali si conferma l’attitudine country folk tendente al rock dei Cowboy Junkies, in quello che si potrebbe definire un concept album sulla famiglia, sulla ricerca della pace interiore e sulla morte. Eccoci tornare alla corda spezzata della copertina, al destino ineluttabile da combattere fino all’ultimo secondo, all’ultimo respiro.
At the End of Paths Taken vive infatti di continue dualità, parla contemporaneamente di arrendersi, di abbandonarsi al viaggio finale e poi invece di lottare contro il dolore che ne deriva. È un’opera che sintetizza la vita, quel continuo affannarsi e rincorrersi a volte senza senso, a volte con un significato importante, quello che consente ad ognuno di inseguire la sua strada fino a raggiungere, per dirla come il titolo del disco, “la fine dei sentieri percorsi”.
“Here we stand at the end of paths taken.
(Guiding light inspiration)The slow decline.
The crumbling foundation, the stations and now the cross,
but we're still lost”
(Cowboy Junkies, "Still Lost")