Time out of joint – Tempo fuor di sesto
Ceci n’est pas une critique musicale.
Viene da esordire così, cannibalizzando il grande Renè Magritte e la sua riflessione sullo statuto dell’immagine. Questa non è una recensione musicale perché vi parlerò in realtà di visioni, preferibilmente di visioni a occhi “spalancatamente chiusi” (1) al visibile e serratamente aperti all’invisibile che è in ciascuno di noi. Nessuna oggettività, quindi, ma un percorso soggettivo e dunque personalissimo, per arrivare a dire che, come davanti all’immagine di una pipa (il dipinto in questione) potremo solo affermare di intravederne l’eco, così le vibrazioni dei suoni di async ci condurranno davanti ad un’immagine disenso.
Anni fa, trovandomi ad organizzare uno spettacolo teatrale, l’attrice mi chiese se prima dell’inizio si potesse diffondere della musica di Sakamoto. Quale? Chiesi a mia volta, intendendo quale delle diverse anime dell’artista volesse proporre al pubblico, anche perché ero scettico all’idea di riprodurre suoni dal tono rarefatto e quantitativamente minimi in uno spazio all’aperto. Forse il principe che si lamentò con Mozart delle troppo note ne sarebbe stato contento; anche se bisogna dire che passano i secoli ma la risposta permane: non una più del necessario. Regola cui il compositore giapponese si attiene da sempre, curando la produzione in ogni singolo suono, disciplina che gli ha attribuito uno stile inconfondibile. Sempre seguendo lo stesso metodo ecco che l’artista ci fa dono di un universo atemporale, recuperando suoni naturali e artificiali dall’ambiente che ci circonda: musica per il tempo fuori sincrono, per il tempo fuor di sesto, tanto per citare l’eterno Shakespeare. Un tempo che non ha bisogno di un luogo se non quello di un’anima che ascolti e provi a risuonare essa stessa di quel suono per mantenersi in/tornare alla vita.
Quattro anni dopo essersi ritirato dalle scene per curare un tumore alla gola, e a otto anni dall’ultima produzione (“Playing the piano /Out of noise”), il compositore ritorna con un album di quattordici inediti: un viaggio che guarda caso inizia con il brano dal titolo “andata”. Dopo una così lunga attesa, sentire le prime delicate note del pianoforte, il tipico Sakamoto-sound, figlio delle calcolate dissonanze di Claude Debussy è rassicurante, ci sentiamo di nuovo a casa. Certo a tendere bene l’orecchio sembra di avvertire in sottofondo lo sciabordio dell’acqua sullo scafo di una barca, almeno fino a un certo punto del brano, e come è noto l’acqua, con il suo fluire, porta con sé rinnovamento. Non ci si bagna due volte nello stesso fiume sosteneva Eraclito e, infatti, ogni artista avverte fortemente l’esigenza di evolversi, di cercare nuove strade, non si accontenta di arrancare nella palude della ripetizione. Dopo pochi minuti infatti, il pianoforte scema lasciando il posto ad un organo che, pur nella sua solennità, non riesce a sovrastare completamente gli altri suoni come sarebbe avvenuto nei pezzi classici. Qui la sacralità viene contaminata (così come un tumore contamina il corpo) da suoni metallici, industriali, vibrazioni che ricordano elicotteri in sorvolo, ma mi sono spinto a pensare che possano anche vagamente richiamare il suono riprodotto dalle apparecchiature utilizzate per eseguire le risonanze magnetiche. Nonostante ciò, l’organo porta avanti il motivo principale, che non necessariamente deve far pensare a un rito funebre, ma che rimanda alla sacralità di una trasformazione dell’uomo e dell’artista: dal vecchio sound, anche attraverso il commiato dalla malattia debellata, ci si apre ad un nuovo vivere e a una rinnovata modalità compositiva.
“disintegration” è il vero biglietto da visita dell’album, con il pianoforte che viene “pizzicato” con forza nella cassa a produrre suoni che sembrano metallici e che ricordano le campane: ripetuti gong anch’essi inframmezzati da suoni simili a martelletti su ghiaccio, come se il tumore venisse colpito e fatto a brandelli. Sullo sfondo, tastiere che aprono ad atmosfere aurorali come se scostata una tenda si aprisse il velo di Maya del mattino, con la sua promessa d’inizio Rimettersi in cammino, dunque, prima che cali del tutto la notte a coprire le tracce di un percorso già difficile da ritrovare…una metafora della vita…e quale titolo può essere didascalicamente migliore di “walker”?
Siamo evidentemente in un luogo non solamente fisico e sonoro: passi che forse calpestano il sentiero di un bosco, foglie, sterpaglia, rumori di rami spezzati e raccolti. Ancora gong tibetani in lontananza, versi di uccelli. L’atmosfera sonora è nebbiosa, volutamente ci disorienta. Dove siamo? “ubi”, per l’appunto, con Sakamoto che sembra accorgersi di essersi spinto troppo in là, di averci chiesto tanto: lui è guarito e ha acquisito la forza di percorrere riflessivamente vie inesplorate, ma noi non siamo ancora del tutto pronti a staccarci dal suo vecchio stile e così, almeno nell’ultima manciata di secondi del brano, i passi che si sentono poggiano su un terreno meno incerto, più compatto. Se con l’inizio di “andata” ci ha fatti sentire subito a casa, ora è lui che pare fare ritorno dopo una ricerca tutt’altro che semplice e priva di paure; quello che abbiamo sentito prima era il suono della sirena di una fabbrica o un ululato?
Allora ecco il regalo di un pianoforte che richiama un suo vecchio pezzo “Solitude”, accompagnato da accordi che si ripetono similmente al Preludio n. 4 di Frederick Chopin (riadattato anche dai Radiohead in “Exit. Music for a film” e citato dalla pianista Katia Labèque nel album “Shape of my Heart”). Lungo il brano abbiamo il ripetersi di un suono simile ad un sonar, che ci porta direttamente dalle parti di “Echoes”, dall’album dei Pink Floyd che in copertina mostrava un padiglione auricolare. Apriamo bene le orecchie, allora, perché in “Life, life” sentiremo declamati dalla voce di David Sylvian, vecchio amico e collaboratore di Ryuichi, i versi di Arsenij Tarkovskij (padre del regista):
“Ogni onda segue l’altra fino ad infrangersi sulla riva, e ogni onda è una stella, una persona, un uccello. Sogni, Realtà, Morte. Onda dopo onda…La Vita è una meravigli; meraviglia di meraviglie e alla Meraviglia ho dedicato tutto me stesso, in ginocchio come un orfano, solo tra gli specchi…” (2). Sembra un testamento o quantomeno le considerazioni di un uomo che ha vissuto, che ha visto il mondo ed ha sperimentato la gioia ma anche il dolore, in un eterno ritorno, mareggiata dopo mareggiata. Ecco allora, e vado a chiudere il mio viaggio, che la ripetizione non è più affidata ad un sogno (“And this I dream, and this I dreamt” è infatti il titolo della poesia menzionata) ma lascia il posto ad un’analisi della coscienza del limite dell’uomo (Dream, Reality, Death). Sakamoto lo fa recuperando nel brano “fullmoon”, il monologo finale dal film “Il tè nel deserto” di Bernardo Bertolucci, per il quale aveva curato la colonna sonora e partendo dalla lingua Inglese lo fa recitare in un sovrapporsi babelico di altre lingue, accompagnandolo con una musica tensiva che scema sui versi in Italiano, recitati oramai privi dei suoni:
"Poiché non sappiamo quando moriremo, si è portati a credere
che la vita sia un pozzo inesauribile; però tutto accade solo un
certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte
vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un
pomeriggio che è così profondamente parte di voi che senza
neanche riuscireste a concepire la vostra vita - forse altre quattro
o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna - forse venti
eppure tutto sembra, senza, limite.
Quest’assenza di argini spazio-temporali, è l’immagine finale, l’approdo asyncrono a cui ho voluto condurvi, servendomi solamente di sei dei quattordici brani presenti nella tracklist. Altre possibilità, altre interpretazioni sono possibili: non abbiate limiti sembra suggerire il compositore. La mia non è una recensione in stile classico, ma il mio profondo sentire dopo essermi immerso nell’ascolto di questa musica, le mie visioni. Una mistificazione, volendo, ma a mia difesa posso dire di essermi fatto sedurre da uno spunto: presentando la sua opera, proprio Sakamoto ha chiesto di considerare questi brani come la colonna sonora di un immaginario film di Andreij Tarkovskij, il grande regista russo. Personalmente mi è difficile separare l’ascolto di un suono dalla formazione di un’immagine nella mente. Se poi avrete ancora la bontà di seguirmi, vi invito a visitare il sito web del musicista (3) per perdere lo sguardo nel muro di video creati dai partecipanti al “Ryuichi Sakamoto async International short film competition”, liberamente ispirati alle tracce del disco e a testimonianza della filiazione tra musica e immagini.
Visionari, dunque, sempre in cerca di un oltre, sganciati dalle comuni coordinate, certi che non si possa far altro che tornare dove non siamo mai stati. In questo senso l’ultima traccia del percorso ci fa da nume e lume tutelare grazie all’evocativo titolo: “garden”. Persi o ritrovati, vi aspetto là, nel giardino dei suoni. Fuori dal Tempo.
Post Scriptum: “Tempo fuor di sesto” è anche il tiolo di un romanzo di Philip K. Dick, autore di cui si renderà necessario, a breve, un omaggio.