Se vi va di cimentarvi un po’ con il rock-pop anatolico nel suo periodo d’oro, indicativamente a cavallo tra gli anni 70 e gli 80, il divertimento è assicurato. Il punto è che ciò che ci intriga, di questo genere, probabilmente è frutto di un retaggio del nostro pregiudizio eurocentrico per il quale, da Trieste in là, tutto ci risulta esotico. A questo si aggiunge la tendenza che abbiamo nel misurare il grado di psichedelia di ciò che ascoltiamo in una scala con valori direttamente proporzionali alla distanza tra noi e l’India. Costruzioni armonico-melodiche, strumenti impiegati e tecniche di esecuzione, ritmi inusuali per i nostri quattro quarti standard, strutture disordinate rispetto ai nostri rigidi schemi strofa strofa ritornello strofa cambio ritornello, fonemi impronunciabili. Ascolti di questo tipo ci destabilizzano fino a farci perdere l’equilibrio, un vero e proprio trip. E se volete sapere il mio punto di vista, comunque è molto meglio questo che la tecnica opposta, cioè la musica etnica dell’est extraeuropeo adattata ai canoni pop occidentali, in pratica quello a cui siamo esposti ogni anno quando va in onda l’Eurovision Song Contest, manifestazione canora oggi tanto social ma unicamente per gli stessi motivi che ci siamo detti sopra. Tutto bello e folcloristico quello che proviene dall’estero, ma poi, a fine serata, meglio che ciascuno rientri a casa propria.
Un vicolo cieco in cui gli Altin Gün hanno trovato una via d’uscita. Difficile capire se, a scardinare i luoghi comuni sul rock anatolico, sia il fatto che la band è di stanza ad Amsterdam e che è composta da musicisti turchi solo per quattro sesti.
Giunti al quarto long playing, quinto se consideriamo anche Âlem, album pubblicato solo in digitale durante il lockdown e, in seguito, immolato alla causa del supporto alle popolazioni turche e siriane colpite dal terremoto, gli Altin Gün si confermano capaci di diffondere un sound tipicamente anatolico ma permeato di funk, elettronica, rock d'antan e tanta, tanta psichedelia. Il bello è che lo fanno con totale naturalezza. Nella loro produzione difficilmente vi sentirete appesantiti da forzature, nemmeno nei brani dei dischi composti e registrati a distanza durante la pandemia.
Il titolo del nuovo album è Ask, parola che Google Translate mi rende in “Amore”, e se fosse così sarebbe bellissimo perché traduce tutta l’attrazione centripeta per la propria terra di origine. Le dieci tracce di cui si compone sono infatti brani della tradizione popolare rivisitati in stile Altin Gün, ovvero corredati da una serie di finezze delle quali si può godere doppiamente alternando l’ascolto di ciascuna canzone con il proprio alter ego originale interpretato da un o una cantante turca in carne e ossa (basta un semplice copia/incolla del titolo nella barra di ricerca di Youtube).
Mettendo a confronto le due versioni vi sarà possibile infatti cogliere in pieno le potenzialità artistiche degli Altin Gün: “Badi Sabah Olmadan” remiscelata come una b-side dei Cure dei tempi di Seventeen Seconds. “Su Siziyor” e “Leylim Ley” arrangiate con giri di basso dub su ritmiche funk. “Dere Geliyor” nel caratteristico bilico precario provocato dai suoi 9/8 fino alla cavalcata indomita del solo di sintetizzatore, strumento ancora protagonista in “Çit Çit Çedene” in una articolata improvvisazione finale.
La psichedelia torna protagonista nel riff grunge-stoner di “Rakiya Su Katamam”, mentre con “Canim Oy” i tentacolari tempi dispari sono in grado di fare da mantra e liberarci in mistiche rotazioni da dervisci. “Kalk Gidelim” sdogana senza pudore persino la chitarrina in levare che introduce al reggae, mentre con “Güzelligin On Para Etmez” il tempo si ferma in preghiera, una pausa introspettiva per tornare in pista più freschi che mai con il sound disco-rock fine anni 70 di “Doktor Civanim”, la traccia conclusiva quasi in stile Giorgio Moroder.
Gli Altin Gün giocano in Ask tutte le migliori carte per confermare il loro ruolo di Tame Impala dello psych-pop anatolico, consapevoli che per dimostrarsi innovativi con un repertorio del passato occorre giocare d’intelligenza per non cadere nella banalità del tributo fine a se stesso. L’alternarsi della voce femminile di Merve Dasdemired a quella maschile di Erdinç Ecevit Yildiz contribuisce in modo decisivo a sventare i rischi della ripetitività.
È vero, mancano i registri synth pop delle produzioni precedenti, ma l’assenza dell’elettronica retro in Ask è magistralmente compensata dal cuore, quindi va benissimo così. Pensate a come sarebbe difficile un’analoga operazione qui da noi, solo l’idea - del repertorio da modernizzare e di chi potrebbe candidarsi a farlo - mi fa provare imbarazzo e desiderio di chiedere venia in anticipo al mondo intero.
Il fatto che Ask sia invece un album perfettamente riuscito significa che le canzoni della tradizione turca sono costituite da un materiale adatto a operazioni di revamping e di riciclo, già pensate in fase di progettuale per essere estranee in ogni tempo, e che gli Altin Gün sono davvero dei campioni nella loro specialità, quella di essere estranei in ogni luogo.