Ci sono diversi temi dietro al nuovo disco de I Quartieri: innanzitutto “ASAP” arriva sei anni dopo “Zeno”, un lasso di tempo talmente ampio per un sophomore (perdonate l’espressione, è la prima volta che la uso in vita mia, non mi veniva altro) che quasi dovremmo parlare di un’altra band. Poi c’è il discorso dei punti di riferimento, dell’area in cui collocarsi. In un contesto socio-culturale dove la musica sta diventando sempre più generazionale e appiattita sul presente, loro fanno esattamente il contrario: un disco di canzoni “adulte”, che parlano un linguaggio incomprensibile all’adolescente di oggi, e di canzoni “universali”, nel senso che, pur non sottraendosi al giudizio sulla propria epoca, trascendono tempi e mode in maniera disinvolta. E ancora, il discorso della velocità: “ASAP” sta per “As soon as possible”, espressione sempre più presente nei contesti lavorativi (in una società che utilizza l’inglese senza per questo impararlo e nel contempo dimentica la propria lingua) che contrasta radicalmente con un disco che, nonostante la durata, si prende tutto il tempo necessario per raccontarsi.
Già, il tempo. Fabio Grande, cantante, chitarrista e principale mente creativa del terzetto (hanno preso un batterista nuovo ma il fulcro del gruppo sono sempre lui, Marco Santoro e Paolo Testa) non ha fatto mistero che questa sia una componente fondamentale per comprendere appieno questi otto brani. Il carattere essenzialmente performativo di questa “società della stanchezza”, per citare il celebre saggio di Byung-Chul Han, ci spinge ad essere sempre in movimento, ad andare ad una velocità folle, facendoci sentire in colpa se decidiamo di prendere uno spazio per noi stessi. E invece a volte occorrerebbe rallentare, guardarsi intorno e godersi la realtà, godersi le cose. Esattamente come hanno fatto loro: sei anni di tempo tra un disco e l’altro, tornare solo quando hanno avuto qualcosa di interessante da dire. Nel mezzo, hanno vissuto.
“ASAP” è un disco politico, in un certo senso. È un disco che, a partire dalla medusa in copertina, denuncia il rischio che si corre nel farsi trascinare da questo flusso inarrestabile di impulsi, messaggi, immagini, che inondano la vita quotidiana senza chiedere di essere contestualizzati; è un disco che racconta la solitudine di chi si trincera dietro ai Social Network, con l’ossessione di avere contenitori da comunicare anche se poi non ci sono i contenuti; ci sono brani come “SIRI”, che mettono insieme uno dei più famosi device del momento, con una guerra che sta insanguinando il Medio Oriente e di cui siamo solo a sprazzi davvero coscienti.
Allo stesso tempo, però, non c’è rabbia, ideologia o militanza. C’è semplicemente la descrizione poetica di una serie di istantanee, impressioni brevi e indistinte, che esprimono tristezza ma che al contempo rivendicano la necessità di riappropriarsi di un punto di fuga, di una maniera di stare nel reale con libertà e dignità.
In un mondo accelerato, dove si fatica a tenere il passo, questo è un disco che va lento, che chiede di essere assaporato nota dopo nota, canzone dopo canzone. Un suono antico eppure al passo coi tempi, dove la produzione gioca un ruolo essenziale (Fabio Grande è uno dei più stimati in Italia, nel suo campo, avendo lavorato con nomi importanti come Colombre e Maria Antonietta e diverse interessanti realtà emergenti, come Bonetti, Pereira, Elasi e Mai Stato Altrove) e dove chitarre e Synth si sposano magnificamente con la voce, a disegnare atmosfere dense di tristezza e contemplazione, che non disdegnano però qualche improvvisa accelerazione.
Lontani da quel che va di moda oggi, I Quartieri cercano solamente di trovare il proprio spazio, di raccontare quel che hanno da raccontare, nella convinzione che una narrazione come la loro non potrà che trovare un pubblico attento e partecipe, anche se probabilmente non di massa. I produttori di “Suburra”, che li hanno coinvolti nella colonna sonora, se ne sono accorti. Adesso sarebbe bene che la voce si sparga ancora di più.