Credo che ormai l’unico caso in cui una reunion possa dirsi davvero impraticabile è quando uno dei membri originari sia passato a miglior vita. Per il resto, nell’epoca odierna niente può davvero considerarsi finito, dal momento che il presente ci spaventa, in molti casi ci delude e vogliamo sentirci accuditi e protetti dalle certezze del nostro passato. Ecco perché è da almeno vent’anni che nessuna band si scioglie mai veramente e che sia per un disco o per un tour, ci sarà sempre la possibilità di rivedere in azione quegli act che ci hanno reso più bella la vita.
Eppure, c’è reunion e reunion. Intervistati recentemente da Francesco Vignani per Rumore, Aidan Moffat e Malcolm Middleton hanno semplicemente detto che le cose funzionano se ci sono “ragioni giuste alle spalle nel decidere di tornare insieme”. E per loro, a quanto pare, è funzionato proprio così: nei dieci anni di gap tra “The Last Romance” ed il tour del 2017 hanno continuato a frequentarsi, a fare musica e ad andare l’uno ai concerti dell’altro. Hanno ripreso a girare insieme inizialmente per festeggiare con una serie di date il decimo anniversario dallo scioglimento (strana ricorrenza, in effetti) ma poi ci hanno preso gusto ed è venuto fuori un nuovo disco, che sarà seguito da un ulteriore tour, sempre che la pandemia non decida di durare ancora (al momento ci sono date nel Regno Unito programmate per novembre ma è tutto molto molto incerto).
Ascoltando “As Days Get Dark”, comunque, pare che il tempo si sia fermato. A partire dalla copertina, che ritrae un dipinto di Pedro Americo, pittore brasiliano del secondo Ottocento, e che risulta una novità di approccio allo stesso tempo coerente coi loro canoni (interessante che l’immagine sia in realtà proiettata sullo schermo di un computer), e dai versi di apertura della prima traccia, quella “The Turning Of Our Bones” che era già stata anticipata come singolo a settembre, ci si torna ad immergere completamente nel mondo degli scozzesi, un’impronta sonora e tematica che ritroviamo intatta a dispetto di tutto.
In queste undici canzoni ci sono gli Arab Strap che abbiamo sempre amato: le melodie cupe e dimesse di Malcolm Middleton (avvolte da arrangiamenti full band fatti di sezione ritmica, chitarre elettriche, tastiere e orchestrazioni varie, come già consuetudine degli ultimi dischi), la voce fintamente depressa di Aidan Moffat, che alterna spoken word in uno strettissimo accento delle Highlands a melodie appena accennate.
Tanti gli episodi musicalmente interessanti, a cominciare dalla opening track con cassa dritta e feeling leggermente Disco, in linea con l’autoironico edonismo del testo e un video a tema orrorifico a confondere ancora di più le idee. C’è l’idea di abbracciare tutta la propria mortalità, nel tentativo di riprendere il discorso da dove era stato interrotto, dando poco peso all’invecchiamento dei corpi: siamo tornati, spassiamocela, il resto lo vedremo dopo.
Stupisce l’inserimento dei fiati ad arricchire la tessitura musicale: succede sia in “Another Clocwork Day”, acustica e dimessa come le loro prime cose, un quadro di generale tristezza con un uomo di mezza età che guarda video porno sul computer e poi va a letto accanto alla moglie, contemplando vecchie foto di lei nuda; ma succede anche in “Sleeper”, che è forse l’episodio migliore, coi fiati che si intrecciano nel finale a creare un’atmosfera jazzata, che si integra alla perfezione col quieto Gospel del ritornello. È un lungo e meraviglioso racconto notturno, un viaggio in treno tra sobborghi abbandonati, costellato da vari incontri e ammantato da immagini enigmatiche: l’arrivo in una città sconosciuta, una statua solitaria che si staglia nel buio, il protagonista che si guarda allo specchio e non si riconosce più.
Ci sono canzoni dove emerge il lato più dolce dei due, come “Tears on Tour”, tastiere che fanno da tappeto ad un racconto di intimità personale su che cosa voglia dire affrontare il dolore, nel finale un solo di chitarra elettrica costruito su poche note, che arriva a squassare l’atmosfera da confessione con un tocco decisamente Old School. Ma anche “I Was Once a Weak Man”, con gli archi ed un non so che feeling celtico nelle melodie; spicca, nel testo, l’ironica conclusione, all’interrogativo del protagonista se forse non sia un po’ troppo vecchio per fare certe cose: “Beh, Mick Jagger le fa ed è più vecchio di me”. Oppure “Bluebird”, una delle più vicine al loro classico songwriting, una semplice chitarra arpeggiata sopra ad una batteria elettronica, con Moffat a ripetere laconico: “I don’t want your love, I need your love/give me your love, don’t love me”.
Spettro dei temi allargato, con addirittura un paio di canzoni a sfondo sociale: “Kebabylon”, che è anche una delle migliori, nella sua alternanza tra spoken word e parti melodiche, incentrata sull’attività delle persone che puliscono le strade durante la notte e in generale su uno spaccato di vita che ha al centro gli ultimi; e poi “Fable of the Urban Fox”, che dietro all’apologo dal finale tragico, sulle volpi che devono trovare un posto dove vivere, potrebbe nascondere la rappresentazione delle pulsioni xenofobe e razziali che agitano la società inglese, oltre che a una possibile satira sulla Brexit. Bella anche la costruzione musicale del brano, con un finale orchestrale dal sapore barocco.
Con “Here Comes Comus” riprendono invece un po’ di cupezza; un altro inno edonistico, forse meno ironico del brano in apertura, anche a giudicare dal video che lo accompagna, non proprio per stomaci deboli. Anche qui siamo al cospetto di uno degli episodi migliori, affacciato sulla dimensione più Pop del duo, ritmato e con un gran ritornello.
Chiude il tutto “Just Enough”: piano, acustica, violino, un commiato tra i più piacevoli, nell’eventualità suggestiva che questo possa essere un come back definitivo.
Alla fine si può dire che le reunion si giudicano anche dalla bontà dei dischi in studio che generano; questo “As Day Gets Dark”, per quanto collaudato e forse un po’ stereotipato nella scrittura, ci restituisce gli Arab Strap in uno stato di forma invidiabile. Tanto basta.