La domanda potrebbe sembrare retorica, pur non essendo così scontata se posta nel campo di qualcosa di completamente ignoto, senza dubbio il regista Denis Villeneuve propende per l'ultima ipotesi, centrando sulla (in)capacità di comunicazione l'intero Arrival, un film che ancora una volta dimostra come la fantascienza moderna abbia trovato casa in una traccia più intima e riflessiva, scevra da azioni roboanti e grossi conflitti.
Protagonista una Amy Adams sempre più brava sulla quale il film si apre: scene domestiche, familiari, intime, un dolore, la solitudine. Qualche tempo dopo, comunque in un altro momento, Louise Banks (proprio la Adams) è impegnata nel suo lavoro, insegna lingue all'università, quando giunge la notizia che in diversi paesi del mondo, scelti in maniera apparentemente casuale, sono comparsi dodici enormi oggetti non identificati fluttuanti a pochi metri da terra. Di questi visitatori non si conoscono le intenzioni, la tensione sale, i dubbi aumentano, gli oggetti sono lì, nessun segnale ostile, nessuna minaccia. Poi la possibilità di un contatto, per gli americani ma allo stesso tempo anche per i cinesi, per i russi, i venezuelani, etc... Il Colonnello Weber (Forest Whitaker) prenderà in mano la gestione delle operazioni del sito in Montana per favorire il contatto con gli alieni, per far questo si avvarrà proprio dell'aiuto della Banks, linguista abilitata per lavorare su documenti top secret, e di quello del fisico teorico Ian Donnelly (Jeremy Renner). Dopo un infruttuoso tentativo di decifrare i versi gutturali emessi dalle creature, una sorta di poliponi eptopodi, si rivela necessario un vero e proprio incontro con gli alieni, evento che diverrà solo il primo dei molti durante i quali Louise e Ian tenteranno di decifrare il linguaggio (la scrittura) dei due interlocutori (?) spaziali. Ma in tutto il mondo altre potenze stanno facendo lo stesso tentativo con metodi e approcci diversi.
Quello che affascina in Arrival è la serie di riflessioni che nascono sul tema della comunicazione. Perché una razza aliena dovrebbe scegliere di manifestarsi in più punti della Terra? Forse proprio per avere più possibilità di farsi capire, non tanto per la varietà di lingue in sé presenti sul nostro pianeta (tutte ovviamente differenti da quella aliena), quanto per le forme mentali presenti dietro a ogni lingua. È un discorso complesso ma molto affascinante. Come ragiona un popolo abituato a comunicare con una lingua basata su ideogrammi, su idee, su associazioni? Come lo fa uno che usa un linguaggio più letterale? Cosa cambia nella testa di un popolo che parla e scrive nella stessa maniera rispetto a uno che non ha una scrittura speculare alla pronuncia? Questo è un tema, insieme a uno ancora più grande, e se esistesse un modo di comunicare più istintuale, completamente incomprensibile per noi, un linguaggio nel quale, ad esempio, non esiste il concetto di domanda? Tutti dubbi, quesiti che nel film vengono sollevati e ne diventano il cuore su cui ragionare e al quale appassionarsi, più che alla trama o alla rivelazione finale. Per ultimo, se il cambio di linguaggio potesse influenzare non solo i nostri schemi mentali ma anche il modo in cui percepiamo la realtà attorno a noi facendocela vedere in maniera più profonda?
Oltre al lato "filosofico" della vicenda, di Arrival si lascia apprezzare anche la regia di un Villeneuve che lavora benissimo sugli spazi, sulla maestosità degli oggetti, sulle luci e sulle prospettive, creando con soluzioni apparentemente semplici un contesto visivo che crea il giusto connubio con i contenuti proposti dalla storia. Si passa dagli spazi aperti del Montana all'inquietante cunicolo d'accesso alla "nave" aliena con perizia visiva e tensione notevoli, nulla è concesso all'eccesso, l'impianto visivo si accorda agli umori della narrazione. Villeneuve ci propone una fantascienza ferma, lontana da guerre stellari e scontri tra galassie, una visione più umana di ciò che va oltre l'uomo, un'alternativa che non fa rimpiangere i rami più dinamici del genere.