Ciao Apice, è un piacere avere la possibilità di fare due chiacchiere con te. Hai recentemente pubblicato un nuovo singolo, “Geronimo”, e su questo brano vorrei porre il nucleo della nostra chiacchierata, come se fosse il nostro totem. Partiamo dalla musica: già dal primo ascolto si nota un bel groove trainante, presente anche nelle tue opere precedenti, ma che qui esce in maniera quasi prepotente. Musicalmente a cosa ti sei ispirato? Qual è il sentimento che volevi emergesse dalla parte musicale del brano?
Ciao Stefano e anzitutto grazie, mi fa molto piacere questa intervista. Per quanto riguarda l'arrangiamento, a che cosa mi sono ispirato e a quella che è la struttura musicale di “Geronimo” ti posso dire che, un po' come tutti i brani che faranno parte del secondo disco, questa canzone nasce dal tentativo di ricerca e di sperimentazione che sto provando a portare avanti da qualche tempo e che è diventato un po' il mio mantra, a livello di scrittura autorale, di tutto questo secondo disco che pubblicheremo a marzo.
“Geronimo” non ha una struttura pop nonostante sia un pezzo pop, si svincola dalla tradizionale struttura “strofa-ritornello-strofa-ritornello-bridge-ritornello-ritornello”, che ormai è diventata la ricetta della hit del mainstream contemporaneo. Tutto il mio il primo disco in realtà ricalca fondamentalmente quel tipo di scrittura, perché erano le prime cose che scrivevo per un mercato preciso e anche perché mi andava di farle così, ero in un certo modo interessato a dire “esisto” al mondo nella maniera più pop possibile. Quello che bene o male sto cercando di fare sul secondo disco, invece, è di continuare a proporre un linguaggio pop che allo stesso tempo possa variare e contaminarsi attraverso quella che considero la mia materia di pertinenza, ovvero la scrittura, le parole e le strutture.
“Geronimo”, quindi, si relaziona all'idea di forma forse in maniera un po' indisciplinata: non esiste una chiara strofa, non esiste un chiaro ritornello, non esiste un bridge o uno special, è tutto un insieme di idee fondamentalmente melodiche e soprattutto dinamiche. Voleva essere un urlo liberatorio e, come tutti gli urli liberatori, non poteva avere una struttura ben precisa. Questo poi ha avuto il suo effetto su quanto riguarda l'arrangiamento, andando a pescare a piene mani da una serie di ascolti che con i ragazzi di Clinica Dischi abbiamo sempre condiviso. Quando c'era la necessità e la voglia di fare pop nel primo disco, queste influenze e questi ascolti li abbiamo un po' messi in sordina per far uscire fuori delle sonorità un po' più contemporanee (anche se adesso mi sembrano veramente più antiche e più vecchie che mai!), mentre adesso, con questo secondo disco e con “Geronimo”, stiamo ritornando a quelle che per noi sono le origini.
La caratteristica principale di questa canzone trovo che sia il fatto che è tutto interamente suonato. Sembra una postilla un po' inutile da sottolineare per chi magari non frequenta l’ambiente discografico, ma sai benissimo che oggi la maggior parte dei musicisti e delle performance musicali sono state sostituite da campionamenti, da giochini digitali che bene o male vanno completamente a rimpiazzare quello che era l'approccio suonato che ci poteva essere un tempo. Ecco, noi siamo ritornati alle origini e quindi abbiamo pescato a piene mani dalle cose che più ci piacciono, sicuramente con un occhio di riguardo agli anni Settanta. Il sentimento che volevo emergesse dall'aspetto musicale direi che è quello di forte libertà, dato dalla necessità di sentire qualcosa di vero che sta suonando in quel momento. Secondo me, anche se uno non lo sa e non ci fa caso, la sente e la avverte la differenza fra un groove di una batteria vera oppure un loop di un campionamento, anche se fatto benissimo. Quello che volevamo era sentirci “puliti” nel restituire un po’ di verità all'approccio alla musica, sia in fase di registrazione sia nel confronto con lo strumento e con l'origine di tutto, che non è il computer, ma sono le pelli, i legni e le corde (vocali e non) che suonano.
Devo dire che questo piccolo-grande stacco rispetto al tuo precedente disco si sente, ed è una cosa molto interessante perché sebbene si perda la classica struttura del brano pop, come dicevi tu, il risultato è coinvolgente e trainante. Inoltre la libertà di cui parli si nota molto, a livello musicale e non solo. Entrerei a questo punto a piè pari nel brano e in quello che racconti. Nei primi versi della canzone esponi la necessità di tornare vergine, quasi a spogliarsi dalla “corruzione” di questa società, in modo da tornare “veri”. Ho capito bene?
Sì, direi proprio che il punto centrale poi è questo, senza farci troppi giri intorno. La prima immagine che mi è venuta in mente non è stata quella di Geronimo e degli indiani (non è un brano che parla di questo, nonostante i riferimenti siano più che evidenti), quanto piuttosto la libertà e la necessità di svincolarsi da determinate costrizioni e pose sociali, culturali, morali. L’immagine forte da cui poi è scaturito tutto il brano è venuta fuori durante una chiacchierata con Giacomino, il chitarrista dei Moca. Eravamo in studio a suonare e a chiacchierare, e ad un certo punto ci siamo detti “quanto sarebbe bello riuscire a tornare vergini per poter rivivere determinati attimi di grazia con la stessa naturalezza e ingenuità di chi non ha ancora visto nulla né provato nulla!”. Adesso che cominciamo ad aver provato un po' di cose, anche se sono niente rispetto alla totalità del tutto, ogni tanto viene a mancare la possibilità di viversi con purezza un determinato momento di semplicità e di naturalezza. Questo perché tutto deve essere sovra-strutturato e analizzato, il nostro cervello immagazzina esperienze e in qualche modo finisce con l'inibirsi dal provare quella sensazione primigenia che può aver dato una prima volta. È da quest'idea che poi è arrivata la riflessione sugli indiani, sull'America prima degli americani, che è l'emblema in qualche modo di un tipo di sovrastruttura sociale. Per questo l'America è un po' paradossale: è il continente più vergine e allo stesso tempo quello più sovra-strutturato, nel bene e nel male.
Da qui è poi nata la riflessione su Geronimo, anche se molto strumentale alla mia idea di raccontare una liberazione necessaria da tante cose, che poi alla fine sono solo sovra-strutture e in qualche modo lasciti di un'educazione morale, culturale e sociale di un orizzonte sovra-determinato, che però non inerisce spesso con quello che è il nostro essere, qui e ora, umani.
Mi interroga il fatto che subito dopo a questa necessità di purificazione dici di scegliere la maschera da indossare, la meno dolorosa. Come mai? Eppure, in teoria, il fatto di riconquistare la propria libertà dovrebbe spogliarci da ogni tipo di maschera.
Guarda, a questo ti rispondo in maniera molto breve, perché non amo le canzoni che non possiedono o non cercano di possedere, pure nei propri slanci liberatori, un principio di realtà. Credo che la convivenza con le maschere sia alla base dell'esistere e del comunicare, e anche di un certo tipo di “necessità di migliorarci”. È anche questa la cosa bella dell'essere umano, che lo rende anche profondamente creativo: il fatto che ogni forma di comportamento sia fortemente performativa, se così possiamo dire. La performance, la maschera, è connaturata all'uomo. È anche un po' il gioco della comunicazione, indossare maschere, sta alla base di quello che è la natura umana. Però, qui, parlo quantomeno della maschera che fa meno male! Ecco, questo è un po' il succo del discorso che voglio farti: cioè, se deve essere questa la maschera che porto, è perché è la maschera che scelgo io di indossare. Se vuoi, a questo punto, puoi buttarci dentro anche Pirandello con “Uno, Nessuno Centomila”: sì, ma poi che cosa c'è sotto la maschera se non un'altra maschera? Perché questa, alla fine, è la natura dell’uomo; l'uomo è una maschera, e da questo discende la propria versatilità di carattere comunicativo-emotivo. Con le maschere ci conviviamo e le maschere in qualche modo fanno parte della nostra essenza, secondo me.
Detto questo, ci sono maschere che portiamo in maniera più o meno naturale, però l’obiettivo di ogni uomo dovrebbe essere quello non di trovare la maschera definitiva, perché poi lì ristagna e muore. Piuttosto, cercare di volta in volta quelle che sono le nostre “parti di inferno che non sono inferno e farle durare”, come direbbe Calvino. Perché quello che viviamo è sicuramente un “inferno dei viventi” e l’inferno dei viventi prevede che con le maschere ci dobbiamo imparare a convivere.
Questa ricercata liberazione quindi può arrivare fino ad un certo punto, non può essere totale.
No, penso che la nostra libertà sia commisurata alla nostra natura. Le maschere fanno parte dell'uomo, sono alla base del nostro essere animali comunicanti e performanti. Insomma, il problema non è levare le maschere, ma saperne trovare di giuste, in qualche modo, di vere. So che può sembrare un paradosso, ma è così. Per essere liberi credo sia necessario accettare anche i paradossi.
Poco dopo tocchi quello che per me è stato uno dei punti più importanti della canzone: “E liberare queste mie parole vuote dall’istinto di colmare questo vuoto di pressione”. Questo vuoto l’ho letto come il vuoto che ogni persona si ritrova addosso, dentro. È proprio vero che spesso ci vestiamo di parole vuote con l’illusione che possano colmarlo. Ma tanto sappiamo, se siamo sinceri con noi stessi, che è tutto inutile. Pensi però che questo “vuoto di pressione” sia una cosa insita per natura nel cuore di tutti noi o che sia una conseguenza di questo tipo società da cui senti la necessità di spogliarti?
Trovo che facciamo parte comunque di un contesto sociale e culturale che tende sempre a riempire e riempire sempre di più. Nella musica, così come nella vita, credo invece che il motto prediletto debba rimanere “less is more”, meno è già tanto, è già più. Io poi sono sempre stato una persona molto esuberante in questa direzione del riempimento, per cui l’ho sempre avvertita questa necessità anche un po' di silenzio, di ridurre le cose al minimo, è sempre stato un po' un obiettivo a cui anelo. Sì, ti potrei dire che le responsabilità sono sociali e culturali, però penso che sia una tendenza anche un po' personale. Io in realtà nei miei pezzi parlo di me, quindi non ho nessun tipo di reale slancio di astrazione globale o politico quando scrivo un pezzo, lo scrivo perché parte da una sensazione che è mia e personale, senza nessun tipo di intenzione profetica per l’umanità. Quindi, tornando alla tua domanda, penso che ognuno sappia a che cosa ricondurre il proprio vuoto di pressione.
Nella strofa successiva c’è un altro punto che mi ha toccato e interrogato e di cui vorrei chiederti. “E sciogliere i miei dubbi sul domani raccogliendo con le mani le parole dei miei avi”: pensi che in questo atto di svestizione gli avi abbiamo qualcosa di utile da dirci? O invece sono proprio quelli che hanno creato questa mentalità da cui vuoi liberarti?
Io penso che gli avi abbiano sempre qualcosa di buono insegnarci, nel bene e nel male, perché come dice il buon Alberto Angela “quando dimentichiamo il passato ci condanniamo a doverlo rivivere”. Quindi c'è sempre qualcosa da imparare anche da quegli avi e da quelle storie che hanno lasciato eredità tremende ma che intanto sono storia, necessaria a svolgere quel ruolo di monumento alla memoria che non deve rimanere tale ma deve farsi dinamico; non monumento, ma presente che continua a scorrere in noi. Siamo prossimi alla fine di una vita che si tramanda da miliardi di anni sulla Terra e noi, fin qui, ne siamo gli ultimi testimoni; siamo quelli che continueranno a tramandarla nel codice genetico. Abbiamo tutta questa storia accumulata attraverso anni, secoli e millenni di evoluzioni, di adattamenti, di massacri, colpi di genio, follie, opere, chiese e musei, strade, scoperte e invenzioni e tutto quello che l'uomo sa creare e distruggere; ecco, tutto questo ce l'abbiamo scritto nel DNA anche se non ci pensiamo. Quindi raccogliere il proprio passato credo che possa essere l'unico modo per poter vivere il proprio presente con consapevolezza e poter pensare di costruire un futuro che non ripeta determinate dinamiche e determinati errori, sempre che errori poi possiamo chiamarli, perché la storia, e lo dico in modo molto hegeliano, non accetta errori: è e non può non essere, e quelli che noi chiamiamo errori spesso sono solo tappe necessarie a un processo di evoluzione storica, questo è quello che credo. Tuttavia, sicuramente alcuni eventi storici hanno lasciato segni particolarmente profondi, che oggi diventano moniti per il futuro, quindi sì, il passato non è mai passato, questo è il punto.
Grazie davvero per questa chiacchierata, questo focus sul tuo nuovo singolo “Geronimo” e sul tuo pensiero. Vorrei concludere con una domanda che mi è sorta ascoltando la parte finale del brano. Parli di voci di padrone che ti conoscono bene, e dopo dici che “sono i sogni che hai, le certezze che so di non potere avere”. Dopo questa incredibile chiacchierata capisco quello che dici sulle certezze che sai di non potere avere, ma mi chiedo invece cosa pensi riguardo ai sogni: anche i sogni sono stati contaminati da questa società e ti trattengono da questo desiderio di purificazione? Ti devi liberare anche dei sogni? È davvero possibile farlo?
Ti rispondo come ti risponderebbe Claudio Lolli: io sono per “disoccupare le strade dei sogni” e cominciare ad attraversare quelle della realtà, questo è il mio sogno. Finché continuiamo a vedere i sogni come tali, rimarranno tali, io provo invece ad impegnarmi nel provare a disoccupare le strade del sogno e far sì che si possano cominciare a chiamare strade della realtà. Non è che non sogno, ma il mio sogno voglio che sia reale.
Spero di averti risposto in qualche modo. Ti ringrazio davvero per la voglia di capire, che penso sia necessaria per sopravvivere alla nostra estinzione, soprattutto di questi tempi.
Un abbraccio a tutti i lettori di Loudd!
Grazie.