La musica ai tempi dei Social Network e della comunicazione globale è un affare piuttosto strano. Non saprei spiegare in altro modo, altrimenti, il fenomeno per cui il disco d’esordio dei canadesi Alvvays, uscito tre anni fa, non abbia minimamente incrociato la mia attenzione, neppure per sbaglio. Semplicemente, non mi ero accorto che esistesse. Capita sempre più spesso, ormai: scopri una band al secondo o al terzo disco e ti chiedi dove diavolo fossi quando pubblicava i precedenti. Bisogna semplicemente rassegnarsi al fatto compiuto: oggi ascolto un numero di band almeno cinque volte superiore a quello di quando ero adolescente; eppure, paradossalmente, sento di non avere la benché minima presa su ciò che avviene nella scena. L’illusione di avere tutto a portata di mano è, appunto, un’illusione. Bisogna ascoltare quel che si riesce, prendere quel che ci piace e, per il resto, cercare di non farsi troppe menate inutili.
Il secondo disco degli Alvvays, appunto, mi sono trovato ad ascoltarlo su segnalazione di un amico, che poi è lo stesso che da anni mi aggiorna su ciò che di volta in volta vale la pena fare proprio. E ho scoperto che questo quintetto di Toronto, che ha il suo fulcro creativo nella cantante Molly Rankin e nel chitarrista Alec O’Hanley, aveva già sbancato le College Radio del proprio paese con “Archie, Marry Me”, colonna portante del loro disco di debutto. Ci sono voluti tre anni per avere un successore, perché i cinque sono andati in tour per tantissimo tempo, seguendo quell’imperativo per cui se non suoni è difficile che si accorgano di te.
A quanto pare ha funzionato: “Antisocialites” arriva atteso e desiderato, sull’onda di un hype già piuttosto consistente, accompagnato dalla solita domanda che ci si fa sempre in questi casi: “Riusciranno a ripetersi?”. La risposta, per quanto mi riguarda, è che hanno fatto decisamente di più. Per intenderci: ho recuperato il disco d’esordio a posteriori, ma credo che se l’avessi fatto all’epoca, difficilmente avrei seguito con interesse questa nuova uscita. E avrei fatto male: perché se dal punto di vista stilistico le coordinate sono sempre le stesse, un Jangle Pop orecchiabile e diretto, con melodie vivaci e zuccherose infarcite di tastiere, synth, glockenspiel, chitarre acustiche e fraseggi a la Johnny Marr come se piovesse, il contenuto risulta invece di qualità molto più elevata.
Sono tutti brani semplici e diretti, dove la voce della Rankin e la chitarra di O’Hanley costruiscono melodie cristalline e ritornelli che già al primo ascolto è impossibile levarsi dalla testa. I riferimenti sono chiari: dagli Smiths più solari dei primi singoli, ai Teenage Fanclub, ai Cocteau Twins di “Heaven Or Las Vegas”, agli Undertones, fino a certe suggestioni scintillanti e adolescenziali tipiche della scuola svedese di band come Pastels, Alpaca Sports o The Garlands.
Canzoni dritte al punto in maniera disarmante, che siano costruite su acustiche e tastiera (“In Undertow”, “Not My Baby”), che abbiano una maggior carica di effetti e distorsione (“Plimsoll Punks”, “Lollipop”), o che siano più accelerate nel ritmo (“Your Type”) o, infine, che seguano il modello della romantica ballata (“Already Gone”, “Forget About Life”). “Ci piace scrivere canzoni Pop e non ci vergogniamo di farlo.” hanno detto in un’intervista recente. È musica spensierata e liberatoria, anche se tutto il disco esamina da prospettive diverse le difficoltà che la rottura di una relazione amorosa porta con sé. Ma non c'è, per dire, la cupa malinconia che si può osservare in tante delle cose di Morrissey. Anche nel titolo, che pure denota chi non sta proprio a suo agio con la gente a fare quello che fanno tutti, c'è un non so che di ironico e un distacco quasi liberatorio come a dire: “Suoniamo quel che suoniamo e parliamo di quel che parliamo; se volete ascoltateci altrimenti pazienza”.
È un disco che dura poco e che funziona per intero, canzone dopo canzone, regalando un viaggio piacevole che, una volta terminato, si ha subito voglia di ripetere. In fondo il Pop, quello vero, è soprattutto questo. Nel suo genere, una delle cose migliori ascoltate quest’anno. Una sola cosa dispiace: che i ragazzini non possano impazzire per questi pezzi e che, anzi, tranne rarissime eccezioni, non si accorgeranno neppure che esistono. Bisogna farsene una ragione: non siamo più negli anni ’80. Ed è un peccato perché raramente ho trovato musica più generazionale e nello stesso tempo più universale di questa. In ogni caso abbiamo un’altra band canadese lanciata a bomba verso il successo.