Siamo nel Sud degli Stati Uniti al tempo della Guerra di Secessione. Una grande residenza padronale troneggia sulle piantagioni di cotone; qui oltre a un cospicuo numero di schiavi neri è acquartierato un reggimento dell'esercito confederato. Le condizioni degli schiavi sono terribili, i soldati del comandante Jasper (Jack Huston) crudeli, gli uomini e le donne che tentano la fuga vengono picchiati selvaggiamente, marchiati a fuoco o puniti con la morte, a chiudere il quadro la barbara usanza di bruciarne i corpi in un casino di mattoni visibile a tutti. Non si risponde ai soldati, men che meno a Blake Denton (Eric Lange), maggiore autorità della piantagione, non si parla se non sotto diretto ordine dei sudisti, non si canta, non si comunica tra schiavi, non si ha diritto a stare male, si subisce senza nessun motivo e senza nessuna scappatoia possibile. Un inferno di umiliazione ancor peggiore per le donne costrette a sottostare ai capricci e agli abusi dei soldati, la giovane e bella Eden (Janelle Monáe) viene scelta per allietare l'esistenza di Denton, in testa solo l'idea di fuggire senza però prendersi inutili rischi, Eden sa bene cosa questi comportino in caso di fallimento, ma l'impresa non è affatto semplice, la guerra sembra lontana, la piantagione isolata, delle giacche blu nemmeno l'ombra. La svolta inizia a prendere forma con l'arrivo di carne fresca, nuovi schiavi tra i quali c'è la giovanissima Julia (Kiersey Clemons), sarà proprio la sofferenza di Julia l'innesco per mettere in moto gli eventi e tentare finalmente la fuga.
Presente. Veronica Henley è una scrittrice di fama mondiale, paladina dei diritti dei neri, delle donne nere in particolar modo, porta avanti il suo impegno attraverso le sue opere e con le conferenze rivolte a un pubblico prevalentemente di afroamericani, discorsi mirati al risveglio e all'accantonamento dell'atteggiamento mite troppo spesso tenuto dalle vittime di discriminazione e di gesti razzisti, anche piccoli, ma continui, quotidiani, reiterati, capaci di volgere al peggio anche le giornate di una donna di successo come Veronica. Ovviamente la sua è una battaglia che diverse personalità bianche trovano scomoda e fastidiosa, gli impegni di Veronica si succedono fino a che una serie di strani eventi inizia a verificarsi intorno alla sua persona. Da qui la situazione precipita.
Antebellum è uno di quei film necessari nel contesto storico attuale, veicolo di sensibilizzazione che potrebbe andare di pari passo, insieme ad altri film similari, con il movimento Black Lives Matter, seppur imperfetto, se riuscisse a far passare il suo messaggio e a farlo entrare anche solo in una zucca vuota di quei razzisti che appestano l'America (e non solo) il film avrebbe svolto in pieno il suo compito, purtroppo ci crediamo poco. Dal punto di vista artistico Antebellum è un bel film, godibile, lo si guarda con piacere e curiosità anche se tirando le somme si ha sempre l'impressione che Gerard Bush e Christopher Renz abbiano attinto qua e là per costruire la loro storia. Senza troppo rivelare diciamo che il meccanismo sui cui è costruito Antebellum ricorda molto da vicino quello di un altro celebre film di un regista non americano che lavora a Hollywood (a voi indovinare di chi si tratta, anche se il parallelo è lampante), in genere il sapore di derivativo e già visto aleggia incombente, l'altro riferimento ovvio è quello alle due recenti opere di Jordan Peele, Scappa - Get out e Noi, il tema di fondo è lo stesso ma qui manca il talento di Peele, più ironico, più sottile, più strutturato sui generi (quello horror in particolare) indubbiamente più personale. Non mancano però i punti di forza, il pianosequenza iniziale introduce bene la vicenda con un crescendo drammatico enfatizzato dall'opening track dello score musicale, l'indignazione colpisce subito lo spettatore e non lo lascia più per l'intera durata del film (scopo raggiunto). Nel dipanarsi della vicenda la curiosità e la tensione tengono viva l'attenzione, le svolte nel plot non sono nuove ma comunque molto funzionali, i personaggi, protagonista a parte, forse un po' troppo monodimensionali (voglio sperare che, seppur razzisti e radicati in una società schiavista, i sudisti non fossero proprio tutti dei completi pezzi di merda), Janelle Monáe è molto brava (e davvero molto bella), a parte lei nelle scelte di casting non c'è nulla di davvero rilevante, teniamo conto però che trattasi sempre di un esordio nel lungometraggio per i due registi/sceneggiatori, in quest'ottica non si può che essere speranzosi per i prossimi progetti di questo duo ormai sdoganato verso produzioni importanti.