Uno scintillio che si propaga da un faro che guarda l'oceano, e si allarga, mese dopo mese, inglobando parchi, case, città.
Una donna, una biologa, che continua ad aspettare il marito, che non riesce a superare quello che potrebbe essere un lutto, e che è un silenzio.
Quella stessa donna che, assieme ad altre donne, vuole saperne di più su quello scintillio, vuole capire cos'è, cosa fa, cosa ne è delle tante squadre militari e di esperti che da lì non sono più usciti.
Ha le basi di un dramma, Annientamento, ma prosegue come un horror, come un film militare, pure, confondendo le acque, cambiando in continuazione il suo DNA proprio come se fosse sotto quello scintillio.
E un suo scintillio, ce l'ha.
Di quelli che brillano e fanno brillare gli occhi, con una messa in scena carica di effetti speciali, una costruzione di un mondo diverso, contaminato e in continuo cambiamento. Alberi d'acqua, fiori umani, animali ibridi.
Tutto, in Annientamento, si fa contaminato, pure la sceneggiatura, fatta di poche parole, con una protagonista (una forte e fragile Natalie Portman) che parla poco ma quando lo fa colpisce, rivelando il necessario di sé e delle compagne per farcela sentire vicina.
È una ricerca, la sua, un avanzare verso una fine che dovrebbe spiegare l'inizio, è un confronto con le altre, affascinate, spaventate, semplicemente succubi di quel nuovo mondo in cui si ritrovano.
Poi, le venature horror prendono il sopravvento, tra l'ansia della dimenticanza e del passato recente, aggressioni animalesche e soprattutto ombre che sanno - pur semplicemente imitando - come far paura.
Ora, non lo si capisce il produttore David Ellison che ha definito il film troppo intellettuale per il pubblico, che a volte più che le risposte, dovrebbe ringraziare le domande che una visione sa sollevare. Quel che si capisce, però, è che un grande schermo sarebbe stato necessario per apprezzare appieno il lavoro di Alex Garland e il mondo stupefacente che ha creato, a partire dalla sola bozza di quella che poi è diventata La trilogia dell’Area X, di Jeff VanderMeer.
Grazie a Netflix, godiamo lo stesso di un lavoro che alterna freddezza e sentimenti, metafore e ricordi, potenza e fragilità. E può bastare.