Progetto del chitarrista Justin Wright, Expo ’70 è uno dei più recenti e felici tentativi di ammodernare le classiche atmosfere cosmiche dei Settanta (che si ritrovano solo nella prima parte di Shape-Shifting Mountain Mover), screziandole, come accade ai gruppi più intelligenti (Voice Of Eye, Steve Roach) con riferimenti etnici, vissuti, invero, almeno in questo disco, più a livello intellettuale che sonoro.
Preceduto da una serie di lavori autoprodotti, Animism è il primo disco ufficiale di Wright, articolato in sette brano strumentali.
L’atmosfera, attonita, del mistero religioso, non viene ottenuta tramite effetti vistosi o derivativi (da altre culture), ma grazie alla iterazione sonora: in Universal Horizon sono i rintocchi di un gong cosmico a dilatare lo spazio sonoro, in Entering The Night On A Highway Of Astral Projection un drone che serpeggia lungo i quindici minuti del pezzo; le sovrastrutture strumentali (riff, accordi…) sono fregi che arricchiscono la materia, accidenti non sostanziali.
Grazie a tale tecnica mesmerica l’ascoltatore si predispone spiritualmente (o fisicamente, che è lo stesso) all’identificazione con la struttura stessa del brano: la dilatazione sonora, ottenuta attraverso questi mantra strumentali, coincide con la vastità interiore ingenerata: già con l’introduttiva Outside Now avviene, di nuovo, il miracolo di una cesura con la snervante quotidianità dell’oggi; i sensi si acquietano e si dilavano delle meschinità; voliamo sopra paesaggi interminati che l’occhio non può domare e in cui la mente, abituata a definire tutto, può finalmente smarrirsi. Come nell’animismo, l’involucro mortale giace accanto a noi mentre l’anima (soffio, fumo, vento, spirito) si ricongiunge con l’immortalità.
Questa visione può dirsi comune al mistico e al materialista; il credente (qualsiasi) vedrà in essa una sussidiaria della pratica religiosa, l’ateo una pratica risanatrice dai guasti della vita, l’esteta un immersione nell’infinito, vera radice della bellezza.