Palermitani, al quarto disco gli Homunculus Res battono il loro personale record in fatto di titoli da conferire ai loro dischi: già verbosi e supponenti i precedenti – Limiti all'eguaglianza della parte con il tutto (2013), Come si diventa ciò che si era (2015), Della stessa sostanza dei sogni (2018) – il più recente si potrebbe definire una esperienza di augmented reality for prog needs: Andiamo in giro di notte e ci consumiamo nel fuoco non solo diventa l’appellativo discografico più prolisso della casa, ma essendo un indovinello palindromo in lingua latina – In girum imus nocte et consumimur igni –, di età medioevale, cela origini da rompicapo per brainiac ante litteram. Abbastanza per farne un oggetto da collezione per i proggers integralisti.
Personalmente però, nel 2020, mi risultano epidermicamente meglio tollerabili i musicisti che del Prog rock hanno mantenuto più la proverbiale apertura mentale della ricercata forma estetica. Se utilizzano strumenti e sonorità d’antan non può che fare piacere, se si presentano come potenziali protagonisti di un Tale e quale prog show che - grazie a Dio –non è ancora stato messo in cantiere, e mai lo sarà, in altre parole con spartiti e ‘atteggiamenti sonori’ da pedissequi imitatori, la cosa mi interessa molto meno.
Andiamo in giro di notte e ci consumiamo nel fuoco staziona pericolosamente sul confine che delimita i due modi di essere succitati. I riferimenti alla Canterbury prog sono per gli Homunculus Res endemici e palesi dalle prime battute, e generano la domanda se l’originalità di una proposta sia determinata dall’aderenza al modello di riferimento. In altre parole, se l’alta dose di peculiarità attribuita alla band siciliana sia merito della prossimità – o notevole similitudine – a band come Caravan e Hatfield And The North, beniamini di un pubblico relativamente esiguo, e non ai Genesis, per esempio, popolari a livello planetario e forti di un esercito di epigoni.
La risposta (a una domanda senza punto interrogativo) è sì.
E – altra domanda di conseguenza – originalità, personalità, unicità, non dovrebbero portare – nel campo dell’arte – a spiazzare, confondere, infondere dubbi al fruitore, piuttosto di metterlo nella condizione di individuare senza tentennamenti in quale precisa parte dello scaffale inserire quell’opera?: C di Caravan, o Canterbury, in questo caso?
La risposta è ancora sì.
Fatta la tara resta la sostanza. Che c’è. Gli argomenti della teoria, tormentosi, cedono il passo al godimento
dell’ascolto. Impossibile restare impassibili ai sonori effluvi canterburyani, benché ottenuti con aromi da bustina. La spumeggiante ariosità, lo stacco da terra, che non può competere con l’eterea, inarrivabile, eleganza degli ‘originali’, va comunque ricevuta con rispetto e simpatia.
E a ben vedere, anzi ascoltare, i ragazzi siciliani hanno allestito pure congegni musicali, di pochi minuti ma precisi (come Supermercato, La spia, La luccicanza), che innescano ingranaggi ben oliati (Supermercato, La Spia, frammenti sparsi) mutuati da un linguaggio prossimo ad autoctone elaborazioni oramai riconosciute a livello internazionale – di nomi come Piero Umiliani, Piero Piccioni, Stelvio Cipriani e altri fini artigiani del tipo, benché quasi esclusivamente ed erroneamente associati al mondo della sonorizzazione cinematografica – capaci di allentare, proficuamente, la morsa prog-patafisica anglosassone che ne ha fatto sin qui le fortune ma potrebbe a lungo soffocarli.
A un genere ritenuto colto – ma si parla sempre di rock – se non addirittura ‘difficile’, e che nella parte strumentale ha la propria forza, gli Homunculus Res addizionano testi caustici e/o ironici che puntano il dito contro le malattie o i tic incontrollabili della società o del singolo (Supermercato, Il carrozzone, Non dire no), dando prova di (r)aggiunto acume. Testimoniando la voglia di accanirsi, con profitto, nel completare un (auto)ritratto che in pochi, all’interno di un panorama non particolarmente ricco di protagonisti capaci di ergersi in piena statura, hanno sinora saputo tratteggiare meglio.