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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
25/04/2022
Tanita Tikaram
Ancient Heart
Il termine bellezza è stato forse troppo banalizzato nel tempo, ma rimane quello più adeguato per definire quanto si trova all’interno di Ancient Heart, meraviglioso debutto per l’allora appena diciannovenne Tanita Tikaram. Se vi fossero dubbi a riguardo, (ri)godetevi Twist in my Sobriety: vi solcherà il cuore, e così faranno le altre dieci pennellate uscite dalla tavolozza multicolore della songwriter britannica.

Quando un disco scorre in un attimo, lasciando nel cuore il desiderio di rivivere le emozioni appena provate nell’ascolto, sicuramente l’artista ha centrato un obiettivo importante perché ha affascinato, coinvolto e commosso con la sua musica. Nel caso di Ancient Heart di Tanita Tikaram lo stupore prosegue nel vederla - era il 1988 - poco più che maggiorenne, già autrice e arrangiatrice di canzoni ricercate, senza tempo, dalle liriche intimiste, a volte fin troppo oscure e pessimiste, ma vere, genuine, financo naif, cantate da una voce incredibilmente profonda, spesso accompagnata da un’orchestrazione da brividi.

L’iniziale “Good Tradition”, scelto allora come singolo di debutto, rispecchia perfettamente quanto appena affermato, vibrante brano uptempo di matrice folk pop, animato da un violino ficcante e un’ammaliante spolverata di fiati; affiora anche Il primo ospite, che dimostra la tenacia e la lungimiranza del progetto. Non comparirà nessun nome gettonato per alzare le vendite, ma personaggi di alto valore, che si legano indissolubilmente al materiale proposto. Il polistrumentista Paul Brady, dunque, pare azzeccatissimo e il suo mandolino pervade il pezzo che, accanto all’allegrezza della melodia, fa assaporare il contrasto di riflessioni agrodolci, come dichiarato dalla stessa compositrice: “Si tratta di una canzone di amore e odio. L’unità familiare, il concetto di focolare praticamente prosperano su questi due sentimenti estremi.”

Il tema del focolare, simbolo dell’intimità di famiglia, è ripreso in “Sighing Innocents”, dove si esplicita la volontà di staccarsi da esso per instaurare una relazione con l’amato, però giustappunto in tali circostanze emergono le assurdità delle aspettative imposte, le regole del buon comportamento che spingono più a seguire un copione che essere spontanei e abbandonarsi ai propri impulsi. Le asperità degli argomenti trattati sono alleggerite da una melodia accattivante, sorretta dalla chitarra del maestro Marc Ribot, che non disdegna una comparsata pure alla tromba, piacevolmente distesa soffice in sottofondo. 

Certamente la Tikaram è stata un'adolescente insolitamente riflessiva che ha avuto la forza di spirito per fare un passo indietro dall'esperienza vissuta ed elaborarla con intuizione penetrante e ciò si palesa nella malinconica “Cathedral Song”, dove si evoca, tra l’altro, il titolo dell’opera. Si definisce un Cuore Antico”, una persona che ha accettato molto presto l’ambiguità che caratterizza l’esistenza e le contraddizioni soffocanti l’anima. Suoni e musica si fanno languidi, con la delicata chitarra di Mitch Dalton in contrappunto, mentre Tanita ondeggia tra speranza e disperazione, “Quindi prendi il mio tempo, e prendi le mie bugie, perché tutti gli altri vogliono prendere la mia vita.”. L’acustica, dolcemente triste “I Love You”, invece narra di un amore sbocciato velocemente, esploso violentissimo e poi finito come due foglie aggrappate su un ramo in attesa, ma con il finale già deciso, “I can’t love you, it isn’t possible.”

Il melting pot delle origini della musicista sta probabilmente alla base delle sue attitudini e influenze musicali: nata a Munster, in Germania, figlia di un ufficiale britannico indo-malese e madre borneese, trasferitasi in seguito a Basingstoke, non molto lontano da Londra, ha subito colpito da teenager per la voce calda e personalissima, e il passaggio dai nightclub a un contratto con la Wea Records è veloce, come quasi immediato è circondarsi di veterani per la produzione del primo album. Se le doti compositive e di arrangiamento paiono innate, risulta fondamentale il tocco in sala di registrazione di due marpioni come Rod Argent, storico leader degli Zombies e qui meraviglioso pure alle tastiere, e del batterista Peter Van Hooke, noto per aver militato nei Mike and the Mechanics.

Le canzoni vengono forgiate su misura per la cantautrice e la scelta di non “sfumarle” mai al termine, tranne per un’occasione proprio necessitante di quel tipo di atmosfera, significa che le sessioni sono molto spesso ispirate e concentrate fino all’ultimo. I brani vivono così la durata reale, come concepiti alla nascita, senza retaggi commerciali e opportunistici. “World Outside My Window”, incarna perfettamente questa concezione, nei suoi cinque minuti ritmati, gioiosi, cadenzati dalle percussioni di Martin Ditcham, un’esistenza passata con vigore dietro alle pelli, da Chris Rea ai Talk Talk, e il violino della leggenda David Lindley, immanente, a rinforzare l’impalcatura sonora. Il tocco all’organo di “Argent” incanala il canto rilassato della Tikaram, in un testo criptico, sicuramente ironico, sorretto nell’inciso da una frase rivelatoria, “That feeling of redemption doesn’t do much for me”: in fondo il peccato è divertente, bisogna abbracciarlo senza rimpianti e che la redenzione se ne vada al diavolo!

Subito a far da contraltare sopraggiunge la cupa e fumosa “For All These Years”, che profuma di locali notturni e strizza l’occhio al jazz: niente chitarre, solo basso, tastiera e batteria. Al resto ci pensa quel maghetto di Mark Isham, con tromba e flicorno catacombali per un pezzo d’atmosfera, sospeso tra malinconia e ricordo di qualcuno/qualcosa che non c’è più. La traccia scivola leggiadramente nel grande successo del disco, l’ipnotica “Twist in My Sobriety”, un collage di pensieri post-adolescenziali di difficile interpretazione, ricco di immagini altrettanto intraducibili in una narrazione coerente, ma forti se prese ad una ad una. Così il verso “Guarda i miei occhi, sono solo ologrammi/Guarda il  tuo amore, mi ha fatto sanguinare le mani/Dalle mie mani puoi capire che non sarai mai altro che uno sbandamento nella mia lucidità” esprime disincanto, una sensazione di vuoto nei confronti dell’amore, che non deve essere mai visto come un sacrificio, mentre il finale è una raffica di prese di posizione nei confronti di istituzioni e mass media, al loro tentativo di omologare chiunque si conformi alle norme sociali e religiose, senza accettare un’ altra ideologia e forma mentis: “I pensieri diversi sono buoni per me”, “Tutti i figli di Dio hanno un prezzo da pagare”, “Le notizie servono per vendere”. Quanta attualità si denota in queste considerazioni e l’uso dell’oboe - Malcolm Messiter -, così raro nella musica moderna, intensifica il mistero malinconico della composizione.

“Poor Cow” è una veloce simil filastrocca di un paio di minuti, memoria di un ritrovo particolare ai tempi del college ed è il perfetto “warm up” per il brano più ambizioso del lavoro, “He Likes the Sun”, altro tentativo di staccarsi dalla gioventù per ricercare una precoce maturità, impreziosito da tre re delle sei corde come Brendan Crocker, Clem Clempson e Mark Cresswell. Non è un caso che questo fior fiore di artisti consenta di sbizzarrirsi nei generi, con un forte richiamo iniziale al blues, tra le chitarre dei suddetti, e un tappeto d’archi ad accompagnare, per poi sfociare in un candido R&B con accenni di rock and roll. Sicuramente un esperimento riuscito prima di un finale romantico e morbido, ma sempre permeato da testi infarciti di misantropia.

“Valentine Heart” è di una bellezza sconvolgente, tenera ballata in cui piano, violini, viola e cello disegnano una melodia dolcissima solcati dalle parole della Tikaram che esprimono innocenza, fragilità, tentennamento e desiderio, in quella che sembra la memoria di una relazione con una persona molto più grande di età. Un tentativo di rompere la solitudine che può certamente aver vissuto in prima persona, figlia di immigrati alla ricerca di integrazione, e che emerge pure nella finale “Preyed Upon”, forse l’unica canzone che risente maggiormente degli anni ottanta dal punto di vista musicale. Infatti l’effetto ”rimbalzante” del fretless bass risulta a tratti un poco imbarazzante, però la traccia recupera terreno per merito di una splendida orchestrazione. All’ampio respiro che si denota nella struttura sonora fanno da contrappunto alcune liriche soffocanti, claustrofobiche, che dimostrano come l’autrice sia ancora ingabbiata in una tristezza tipica degli animi vivaci, che si fanno tante domande senza ottenere valide risposte e si chiudono perciò in se stessi: “Non dimenticare che sei solo finché tutto sarà solitudine, tu ne sei preda.”

Un lavoro denso di oscurità, pieno, come già accennato, di insicurezza adolescenziale. Nonostante lo sconforto presente all’interno, trapela comunque la voglia di vivere e affrontare tutte le incertezze e ciò si denota in primo luogo nei momenti maggiormente allegri dell’opera: vi è sempre un pizzico di ironia intrisa anche nella più profonda disperazione e Tanita Tikaram vuole vivere la vita, affrontarla di petto, prendendo scelte di proprio pugno senza farsi condizionare. Non a caso rivelerà la sua omosessualità senza approfittare del momento di moda dell’outing, ma al termine di un percorso personale, e proseguirà la carriera tra alti e bassi prendendosi svariate pause, pure in questo caso senza sottostare alle logiche di mercato. Da ricordare il grazioso Sentimental (2005), concepito dopo aver vissuto in Italia per alcuni anni, in cui si cimenta per la prima volta al piano, una novità per lei che aveva costruito con l’inseparabile chitarra la struttura delle canzoni di Ancient Heart, e la fremente passione per il cinema, culminata in un cameo nel film francese Goodbye Morocco (2012), dove canta lo standard jazz “Blue Gardenia”, interpretando la parte di una musicista di piano bar.

“Sono sempre stata un po’un pesce fuor d’acqua, lontana dal mondo reale, d’altronde non ho mai posseduto un televisore. Ricordo che mio padre mi portava in biblioteca ogni giorno e ci restavo fino a sera e poi, appena quattordicenne, andavo già a teatro ogni settimana: adoravo qualsiasi genere. Fin da piccola ho sentito profondamente l’arte dentro di me, una specie di vocazione…”

Proprio questa sua versatilità e amore disinteressato per l’arte e tutte le sue diramazioni che conducono alle sette note, la porterà alla pubblicazione dell’ambizioso Closer to the People (2016), lavoro influenzato dalle canzoni blues che hanno caratterizzato la sua infanzia e adorava suonare con la band. Un ritorno alle radici ispirato dalla lettura della biografia di un personaggio speciale ed emblematico: la mitica jazz singer Anita O’Day, indiscussa eroina americana sempre in battaglia contro ogni stereotipo che tendesse a sminuire, normalizzare e regolare il ruolo femminile nel campo della musica. Non poteva essere che questa la direzione del percorso di Tanita Tikaram, enfant prodige nata per stupire e ora raffinata e coraggiosa artista.