Will Hoge è un onesto artigiano della musica americana. Pur essendo ancora giovane, classe 1972, il ragazzo del Tennessee ha una discografia di tutto rispetto che, compreso Anchors che è l’oggetto di questa recensione, conta di nove dischi di studio licenziati in sedici anni, un ritmo sostenuto per il mondo discografico attuale. Ma Hoge è un artigiano anche perché continua a lavorare con gli attrezzi della musica americana, come un falegname che sul banco di lavoro utilizza l’utensile più adeguato per cesellare il legno grezzo. E’ con questo approccio che ha proposto in questi nove album la sua musica con grande coerenza, pur caratterizzando ogni uscita con una declinazione diversa della musica americana.
Se Blackbird on a lonely wire è stato dunque il disco rock, il successivo Man who killed love era un chiaro omaggio al southern rock (echi di Black Crowes e Lynyrd Skynyrd escono ancora dalla casse che è un piacere). Se Draw the curtains era venato di una forte introspezione soul, il penultimo Small town dreams doveva molto al country/rock, con una produzione cristallina e le chitarre a farla da padrone (ma con poche distorsioni).
Un mese fa ho assistito al suo concerto a Massa Lombarda, performance nella quale ha ampiamente attinto dal nuovo lavoro, quindi prima dell’ascolto di Anchors sapevo già cosa aspettarmi. Va detto che per la prima volta nella sua discografia Will Hoge non vuole esplorare o approfondire qualcosa di nuovo e quindi si concentra su quella che sembra essere la musica a lui più congeniale, una miscela di country rock e ballad dal retrogusto soul intramezzate da qualche sprazzo di convinto rock (and roll) di chiara derivazione springsteeniana. La differenza stavolta la fanno i musicisti con i quali Hoge ha registrato il disco ed il passaggio a dei turnisti, il che ha comportato la rinuncia alla sua backing band. Dopo Small Town Dreams infatti il songwriter di Franklin ha intrapreso un tour in solitaria, chitarra acustica e voce in giro per gli States. Al termine di questo viaggio nel taccuino aveva le canzoni di Anchors ma anche la convinzione che qualcosa dal punto di vista del suono andava cambiato. Ed in effetti il nuovo disco registra un cambiamento importante nel suono, più curato e profondo, con un respiro maggiore degli arrangiamenti ed anche un livello musicale più alto. Una grande impronta la dona il neo arrivato Thom Donovan alla chitarra, già apprezzato a Massa Lombarda per la particolarità degli interventi, molto poco legati al mainstream, quasi derivativi di certa musica alternative figlia dei Sonic Youth. L’incontro però funziona e gli arrangiamenti ne giovano.
Le canzoni, dunque. Il disco si apre con una ballad sofferta, come Hoge ci ha abituato negli anni, come The reckoning seguito da una altrettanto introversa This Grand Charade. Subito dopo l’impronta che dovrebbe far fare ad Hoge il salto in radio, la bella (ma non scontata) Little bit of rust che ospita anche la bella voce di Sheryl Crow. Da questo momento l’album decolla, con la strappalacrime Cold night in Santa Fe perfetta nel suo mood crepuscolare e poi la Tom Pettyana (anche nel titolo) Baby’s Eyes. Non mancano le zampate elettriche che mi avevano entusiasmato nel live, come la ruffiana Young as we will ever be dedicata ai figli e la convincente (This ain’t) an original sin. Questo è l’Hoge di sempre, che ama alzare l’adrenalina pur se con un livello di scrittura mai sopra le righe.
Anchors convince per la maturità raggiunta, per un dosaggio perfetto nella scaletta e per una scrittura che finalmente sa passare con invidiabile nonchalance tra i diversi genere che Hoge sa cavalcare con la maestria di un songwriter consumato. Il disco che aspettavamo da tempo.