La principale lezione di Miles Davis è stata che il jazz è - e continua a essere - una lingua viva che muta seguendo la trasformazione del genere umano. Tempi, contesto sociale e culturale, modi, strumenti, rivolte, tecnologia e contaminazione ne arricchiscono di continuo il dizionario.
Il problema è che se la babele del jazz è sconfinata già per i discendenti dei padri fondatori statunitensi, figuriamoci per noi abitanti di questo buco di culo di posto. Le trame multiformi in cui si declina il jazz sono così vaste da far girare la testa. Non che per gli altri generi musicali sia diverso. Il problema è che per il jazz, un’enclave di bellezza abitata da un numero maggiore di gente che lo suona rispetto a chi lo ascolta, è molto difficile essere pragmatici. Non inizieremo però ad adottare un approccio teoretico con Christian Scott aTunde Adjuah, nome d’arte di Christian Scott e basta, un mostro di sensibilità armato di tromba in grado di plasmare la materia jazzistica con un’apertura mentale superiore. Se non vi sentite pronti, guardatelo qui mentre suona alla NPR indossando una canotta di Unknown Pleasures e poi ne parliamo.
E, ancora a proposito di lessico del jazz, Christian Scott è stato il primo a introdurre il concetto di “musica stretchata”, allo stesso modo in cui gli artisti digitali virtualizzano i contenuti e, con qualche software di editing, li dilatano a dismisura facendoli diventare della forma che vogliono. Un concetto in cui le convenzioni del genere che più di ogni altro è in grado di escludere chi non ha gli strumenti (quelli musicali per stare sul pezzo e quelli intellettivi per capirci qualcosa) si estendono per portare conforto a chi mastica culture diverse. Ritmo, armonia e melodia a cosa ti servono se ti tieni tutto per te? Non a caso il trombettista di New Orleans, formatosi in quella fucina di cose meravigliose che la Berklee di Boston, è stato chiamato a interpretare la parte di Miles Davis in “Tutu Revisited” di Marcus Miller, il tour coronato in un album pubblicato lo scorso anno.
Ma veniamo a noi. “Ancestral recall” di Christian Scott è la prova dell’ispirazione liquida nel jazz contemporaneo, un approccio che guarda solo avanti, senza compromessi, in questa ricerca dell’ignoto da cui abbiamo origine e del quale restano solo gli echi in qualche suono immagazzinato nelle nostre reminiscenze, tracce di file audio primordiali - il cuore, il respiro, le cellule che si moltiplicano - che successivamente all’installazione del software vitale finiscono nel cestino per poi essere eliminati definitivamente e solo artisti come Christian Scott, con una magia tutta loro, riescono a recuperare.
“Ancestral recall” è soprattutto la testimonianza della flessibilità del jazz, l’improvvisazione oltre gli schemi di un Real Book universale che si perde nel labirinto di quello che ci ha permesso di dimenticarci di tutto e arrivare qui. Quanti degli habitat a cui ci siamo adattati sono presenti in questo disco? Christian Scott è in grado di ipnotizzare con la sua tromba ultraterrena per condurci tra il blues e la poliritmia, passando per la Detroit, il trip-hop e l’Africa, i loop ricorsivi e l’ambient, il vuoto vertiginoso sotto a un suono dilatato all’infinito e le percussioni serrate in pattern in cui trovare il capo e la coda è una sfida persa in partenza. Pensatevi sudati in club, con un pianoforte davanti, e voi che vi pentite di aver scelto di affiancarvi a Christian Scott in una jam session basata su queste non-regole.
Cosa c’entra il jazz in tutto questo, si chiederanno i conservatori della tradizione acustica ed elettrica e persino gli estremisti del free. Guardare alle opportunità di ricchezza che offrono l’elettronica, lo spoken word, la ricerca nel suono e la sperimentazione è un approccio vecchio tanto quanto il be bop o il jazz modale ed è il principale motore per cui, ancora oggi, il jazz continua a ridefinire se stesso.
In “Ancestral recall” è facile rintracciare tutto questo, a partire dalla presenza di Saul Williams nel turbine di alcuni dei brani più forti, compresa quella titletrack che chiude l’album e che, con le sue parole baritonali, sembra avvisarci delle emozioni più forti a cui gli strumenti stanno per sottoporre l’ascoltatore. O ancora la regolarità breakbeat di “Forevergirl” contrapposta alla bassissima densità della successiva “Deviner”, le tracce di fusion di “Overcomer” e “Songs She Never Heard”, la cupezza di “Prophesy” e di “Double Consciousness” e il gioco a rincorrersi tra strumenti a fiato - compreso il flauto di Elena Pinderhughes - di “Before”.
Il nuovo disco di Christian Scott è una summa di voci ai tempi della globalità indotta da un mondo accorciato dalla rete, dove gli strumenti ortodossi del genere si mescolano alle espressioni artistiche più urgenti del presente con un unico leitmotiv costituito dalla sua tromba, spesso destrutturata a ricordarci che il jazz non ha un inizio e nemmeno una fine. È jazz, un eterno presente, e basta.