Quando, agli inizi di luglio, la famiglia di Tom Petty aveva annunciato l’uscita del box set antologico An American Treasure per il 28 settembre, più di qualcuno, leggendo la lista delle canzoni, aveva storto il naso. A una prima occhiata, infatti, la grande quantità di album tracks, alternate takes e live versions di materiale già noto a discapito di veri e propri brani inediti sembrava stonare con il titolo stesso della raccolta. Quale “tesoro” mai si poteva celare in un’antologia che privilegiava le deep cuts in favore delle hits? Sulla carta, un’obiezione del genere è facile da accogliere. Ma, una volta ascoltate le quattro ore di musica e le 63 tracce che compongono la raccolta, è evidente che mai nome poteva risultare più azzeccato.
Nel corso degli anni, la storia di Tom Petty e dei suoi Heartbreakers è stata raccontata nel dettaglio già molte volte. Nel 1993 c’è stato un Greatest Hits di grandissimo successo, nel 1995 un sestuplo box set (Playback) con tre dischi dedicati solamente a rarità e b-sides, nel 2000 una Anthology: Through the Years da 34 tracce e nel 2009 una Live Anthology che raccoglieva gli highlights di trent’anni di concerti. Senza dimenticare il monumentale documentario di Peter Bogdanovic Runnin’ Down a Dream (oltre quattro ore) e il libro biografico Petty di Warren Zanes (quasi 400 pagine). Ma qui, in An America Treasure, a differenza di quanto già fatto in passato, si racconta una storia diversa, in un certo senso meno standardizzata, con un punto di vista che privilegia le strade secondarie e meno battute piuttosto che quelle principali.
Compilata da un team composto dagli Heartbreakers Mike Campbell e Benmont Tench, dal produttore Ryan Ulyate, dalla vedova Dana e dalla figlia Adria, An American Treasure è innanzitutto un tributo al Tom Petty autore di canzoni. Ed è incredibile come questo obiettivo venga raggiunto attraverso l’intenzionale esclusione della gran parte dei suoi più grandi successi – “American Girl”, “Refugee”, “The Waiting”, “You Got Lucky”, “Don’t Come Around Here No More”, “Free Fallin’”, “Learning to Fly”, “Mary Jane’s Last Dance”, “You Don’t Know How It Feels”, solo per elencarne qualcuno – in favore di deep cuts, alternate takes, live versions e inediti. Ma è proprio constatando quanto sia di alto livello il suo catalogo nel complesso che si può capire quanto sia stato eccezionale Tom Petty come songwriter. Perché, come dice la figlia Adria nelle note di copertina, il repertorio del rocker di Gainsville non è composto soltanto dalle 20 hit che generalmente suonava in concerto ogni sera, ma è molto più ampio e ricco di sorprese. Come “Keep a Little Soul” e “Keeping Me Alive”, due brani del periodo Long After Dark (1982) esclusi perché estranei all’atmosfera complessiva del disco. Oppure “Gainsville” e “I Don’t Belong”, lasciati fuori da Echo (1999) e “Lonesome Dave”, outtake di Wildflowers (1994), tre pezzi validi tanto quanto quelli inclusi nei rispettivi album. Stesso discorso per “Bus to Tampa Bay” e “Two Man Talking”, entrambi provinati per Hypnotic Eye (2014) e poi lasciati da parte perché la registrazione in studio non riusciva a catturarne adeguatamente lo spirito, che usciva invece così bene quando venivano suonate in concerto.
Ecco, un’altra caratteristica che emerge con chiarezza dall’ascolto di An American Treasure, è che oltre a essere stato uno straordinario songwriter, Tom Petty è stato anche un ottimo produttore. Lo dimostra il fatto che nessuna delle alternate take presenti nel box set è superiore a quelle effettivamente scelte per i vari album. E non è cosa da poco, poiché dimostra come Tom Petty conoscesse le potenzialità delle proprie canzoni e della propria band meglio di chiunque altro. La take di “Louisiana Rain” qui presente, per esempio, è quella appena precedente alla versione definitiva finita in Damn the Torpedoes (1979): non ci sono dubbi sul perché Tom Petty abbia scelto quella take e non questa. Così come “Wake Up Time”, registrata nel 1992 quando le sessioni di Wildflowers (1994) erano appena iniziate e Stan Lynch faceva ancora parte degli Heartbreakers: è chiaro come la canzone non fosse ancora sbocciata e ci fosse ancora bisogno di parecchio lavoro in fase di arrangiamento. Stesso discorso per “Don’t Fade On Me”, un pezzo acustico con un fingerpicking à la CSN&Y: la versione finita poi su Wildflowers è senza dubbio migliore. Per non parlare di “Rebels”, forse il pezzo che più ha fatto penare Tom Petty, dal momento che ogni arrangiamento non riusciva mai a catturare la magia della demo. Ascoltandone una versione alternativa, si comprende pienamente il motivo della frustrazione del suo autore nel non riuscire a trovarle il vestito più adatto.
Ovviamente questo gioco del “trova le differenze” è il divertimento principale per i già convertiti, che qui trovano pane per i loro denti. È eccitante spiare gli Heartbreakers in studio – c’è una “Here Comes My Girl” senza lo sfumato finale, una “You’re Gonna Get It” con gli archi in evidenza e una “Sins of My Youth” che non ha ancora l’arrangiamento Bossanova che conosciamo –, ma questo passatempo non deve distrarre da una cosa: constatare come Tom Petty sia maturato nel tempo come autore di canzoni, come produttore ma anche, se non soprattutto, come performer. Perché niente toglie il piacere di sentire gli Heartbreakers giovani e spavaldi scatenarsi in concerto con “Breakdown” nel 1977 e con “A Woman in Love (It’s Not Me)” nel 1981, ma è altrettanto sorprendente e intenso ascoltarli negli anni Duemila dare un nuovo senso a canzoni del passato come “Insider”, “Southern Accents” e “Two Gunslingers”, che, cantate da un Tom Petty ormai maturo, assumono un significato completamente diverso, molto più profondo rispetto a quando sono state scritte.
Ora che con An American Treasure gli archivi sono stati aperti, pian piano si avrà la possibilità di avere un quadro sempre più completo della carriera di Tom Petty. Per il 16 novembre è prevista l’uscita di The Best of Everything, una canonica raccolta di 38 successi che abbraccia tutta la carriera del rocker di Gainsville dai Mudcrutch agli Heartbreakers passando per le parentesi soliste, ideale complemento di questo box set. Poi, forse, vedrà finalmente la luce l’album con gli inediti di Wildflowers, progetto su cui Tom Petty stava lavorando poco prima di partire per la tournée del quarantennale degli Heartbreakers e annunciato già nel 2015 attraverso la pubblicazione dell’inedito “Somewhere Under Heaven”. In una recente intervista al programma televisivo CBS This Morning: Saturday, la figlia Adria ha riferito che il materiale del padre in archivio è sterminato: annate intere di concerti registrati professionalmente, demo, inediti... La Live Anthology del 2009 e questo An American Treasure sono molto probabilmente solo la punta dell’iceberg, dal momento che i tesori sembrano non mancare: gli show radiofonici per la KWST della fine degli anni Settanta; i concerti al Forum di Los Angeles del giugno 1981; le due diverse residence al Fillmore di San Francisco (febbraio 1997 e marzo 1999); il concerto del trentennale a Gainsville dell’ottobre 2006; la tournée del quarantennale del 2017; gli inediti di Southern Acents e Let Me Up (I’ve Had Enough), dal momento che entrambi gli album dovevano essere dei doppi; le session complete del 1992 per il nuovo album con gli Heartbreakers mai realizzato e quelle del 1993 per il Greatest Hits, di cui c’è stata qualche anticipazione sia su Playback sia qui in An American Treasure.
Ma queste, per ora, non sono altro che speculazioni e desiderata. Segno che An American Treasure ha raggiunto pienamente il suo scopo: fare brillare di una luce inedita il Tom Petty autore, produttore e performer e consolidarne la memoria in modo che questa riecheggi con forza per gli anni a venire. Lungo tutta la sua carriera il leader degli Heartbreakers non ha mai voluto essere dato per scontato e ha lottato con tutte le sue forze affinché il suo lavoro fosse sempre preso con la giusta considerazione. Ora che lui non c’è più, il compito di portarne avanti la memoria è stato preso in carico dalla famiglia e dai suoi più stretti amici – che, non ha caso, sono spesso e volentieri stati i suoi più fedeli collaboratori. Il ritratto di Tom Petty che ognuno di loro ha voluto emergesse per mezzo di questo box set è un misto di fierezza, amore e vulnerabilità. Perché se da un lato il duplice motto «be authentic, work hard, keep your word, look out for people, worship the music, love many and trust few» e «don’t be afraid to live what you believe» è molto più che una dichiarazione d’intenti, le storie dietro le canzoni “You and Me” e “The Best of Everything” raccontano un lato del Tom Petty privato finora poco conosciuto.
È difficile raccontare in 250 minuti la storia di un personaggio come Tom Petty. An American Treasure però ci riesce alla perfezione, soprattutto perché è realizzato con una cura, una passione, una dedizione e un amore davvero rari. Dall’ascolto del box set e dalla lettura delle oltre 50 pagine del libretto che lo accompagnano, emerge prepotentemente sia l’amore di Tom Petty per la musica – scriverla, registrarla in studio e suonarla in concerto –, sia l’amore della sua famiglia, dei suoi amici e dei collaboratori per lui. Questo senso di comunità, di famiglia allargata, del quale l’ascoltatore si sente alla fine partecipe, è uno dei maggiori successi di questa raccolta. Trovare una connessione che sia allo stesso tempo personale e universale con i propri ascoltatori è probabilmente lo scopo che si prefigge ogni artista. Tom Petty non solo ce l’ha fatta, ma c’è riuscito per più di quarant’anni. Un legame che andrà avanti ancora a lungo, perché forse sono proprio il suo repertorio, la sua carriera, il suo esempio e la sua eredità musicale il vero «tesoro americano».