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REVIEWSLE RECENSIONI
20/05/2020
Butch Walker
American Love Story
Butch Walker lascia per un attimo il ruolo di produttore e si dedica nuovamente alla sua carriera solista. E lo fa con “American Love Story”, un album sulle divisioni nella società americana contemporanea che cita a piene mani il Rock AOR di metà anni Ottanta.

Musicalmente parlando, Butch Walker è senza ombra di dubbio un camaleonte. Dopo aver mosso i primi passi nella natia Georgia alla guida di band di culto come i SouthGang e i Marvelous 3 (con i quali nel 1999 ha centrato la hit Power Pop “Freak of the Weak”), una volta trasferitosi a Los Angeles è diventato uno dei produttori più richiesti sul mercato, sfornando pezzi da Top 40 a ciclo continuo e lavorando praticamente con chiunque, da Avril Lavigne a P!nk, da Brian Fallon a Frank Turner, da Katy Perry a Taylor Swift, dai Fall Out Boy ai Green Day, dagli Weezer ai Panic! at the Disco. Il tutto continuando in parallelo a coltivare con cura una carriera solista che ha fatto della sperimentazione il suo tratto distintivo, tra album che omaggiano il Glam Rock (The Rise and Fall of Butch Walker and the Let’s-Go-Out-Tonites, 2006) e la New Wave (The Spade, 2011), ad altri più vicini al Country (Stay Gold, 2016) e al Rock in stile Tom Petty (Sycamore Meadows, 2008).

Dopo un progetto intimo come Afraid of Ghosts del 2015 (prodotto da Ryan Adams), un concept album nel quale Walker ha cercato di esorcizzare il dolore per la perdita del padre, il producer georgiano torna a scrivere “a tema”, questa volta alzando l’asticella e sfornando una vera e propria Rock Opera, con tanto di trama e personaggi, temi musicali ricorrenti, una dettagliata background story e un vero e proprio film d’accompagnamento.

Basato su un viaggio che Walker stesso ha fatto dal profondo Sud degli Stati Uniti alla California, American Love Story racconta la storia (in parte autobiografica) di un giovane musicista, Willard, che pian piano si affranca dalla propria educazione White trash – fatta di razzismo, bullismo e omofobia – abbracciando il caotico multiculturalismo della moderna vita americana. È un album in tutto e per tutto politico, nel quale Walker non nasconde le proprie intenzioni (ed è difficile farlo, con canzoni che fin dal titolo sono un atto d’accusa, vedi “Flyover State”, “Torn in the USA”, “Blinded by the White” ed“Everything White”) e non ha paura a denunciare le divisioni razziali e culturali ancora presenti negli Stati Uniti d’America di Donald Trump, che giorno dopo giorno si fanno più ampie invece che ridursi e scomparire.

Da produttore intelligente e songwriter attento, Walker è però perfettamente consapevole che una Rock Opera, per dirsi ben riuscita e per funzionare, deve stare in piedi da sola. E questo accade solo quando le canzoni sanno dialogare tra loro ma anche – e soprattutto – quando queste sono fruibili autonomamente. Ed è proprio quello che accade in American Love Story, dove – escluse l’intro e un paio di tracce di collegamento – ogni pezzo è sia autonomo sia inestricabilmente legato agli altri.

Ma se il tema trattato e la storia raccontata sono legati a doppio filo a quello che succede nell’America di Trump, musicalmente parlando American Love Story è un vero e proprio viaggio nel tempo, con canzoni e suoni che richiamano prepotentemente il Rock AOR degli anni Ottanta. Prodotto e suonato completamente da Walker stesso (con qualche intervento alla batteria di Mike Stepro e alla tastiere dall’ex-Jellyfish Roger Joseph Manning Jr.), American Love Story è un vero e proprio omaggio ai grandi nomi che hanno popolato la Billboard Top 40 durante la presidenza Reagan, con richiami al Tom Petty di Hard Promises (“Gridlock”), ai Fleetwood Mac di Mirage e Tango in the Night, al Peter Gabriel di So (“Out in the Open”) e al Bruce Springsteen di Tunnel of Love.

È vero, forse sembra strano ascoltare canzoni politiche – dove non manca qualche profanità – sostenute da un suono così aderente agli stilemi di quello che oggi chiamiamo Classic Rock – e che durante il suo periodo d’oro, fatta salva qualche nobile eccezione, non è mai stato particolarmente schierato politicamente –, ma, alla fine dei conti, è un difetto di poco conto. Perché American Love Story, pur con tutte le ingenuità che ogni Rock Opera porta sempre con sé, è sia un piacere per la mente sia, soprattutto, per le orecchie. E non è cosa da poco.


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