Succede di scoprire le proprie radici quando meno ci si aspetta.
Succede di scoprirsi band americana con le proprie radici affondate in quei territori dell’Oklahoma, che fino a ieri sembravano solo un contenitore di persone “abitanti della terra”, come ha ammesso il leader Wayne Coyne parlando di se stesso, dei compagni e del cambio di sensazioni che hanno accompagnato questo nuovo album, chiamato in tal senso “American Head”.
Come sempre accade con la musica dei The Flaming Lips, che si parli di psichedelia, cacofonia, alternative pop ci si trova in ogni caso di fronte ad una scrittura ben calibrata, dagli accordi all’armonia, fino a quel sound così etereo che li ha sempre contraddistinti. Un marchio, reso evidente da quella riconoscibilità che si verifica anche solo intorno alla voce di Coyne, se penso alla sua partecipazione al progetto The dark night of the soul di Danger Mouse + Sparklehorse (e David Lynch, è bene ricordarlo).
In quel caso intorno alla sua voce c’è stato infatti costruito un mondo sonoro non propriamente ispirato ai The Lips, eppure fa sembrare quel brano un possibile continuo del percorso intrapreso dalla band, una strada alternativa che si mette coi propri passi accanto alla loro carriera. Questa è la vittoria spontanea della propria identità su qualsiasi tipo di scelta produttiva.
Eccoli dunque ai giorni d’oggi, ancor più cresciuti, maturati, invecchiati, verrebbe da dire, almeno anagraficamente e, se vogliamo metterla così, in balia dei sentimenti contrastanti di abbandono, realizzazione e perdita contro cui ti fa sbattere la faccia l’esistenza.
Ed è stata pare proprio la dipartita di Tom Petty a far scaturire una serie di sensazioni, riflessioni che hanno portato Wayne Coyne e Steven Drozd (i principali autori del disco) a scoprirsi non tanto degli abitanti della terra capitati in America, quanto delle persone con delle radici, con dei motivi da scoprire e capire del proprio presente attraverso il beneficio del proprio passato.
Quindi se musicalmente ci troviamo di fronte all’ennesima ondata di originalità, pur non mettendo sul piatto esattamente delle invenzioni, nei testi ci vengono offerte queste sensazioni di vita contrapposta alla morte e di nuovo alla vita stessa come istinto, più che di sopravvivenza, di comprensione, accettazione. C’è spiritualità senza religione: sono preghiere, come risultato di un percorso emotivo nella lingua a loro più congeniale, abituale, che è il suono.
Ed in questo senso siamo davvero di fronte ad un regalo.
Prodotto dai Lips in collaborazione col fido Dave Fridmann, si respirano principalmente gli effetti dell’Oklahoma: sa di country mischiato a quasi quarant’anni di sperimentazioni sonore e di missaggi. Ed in questo senso la collaborazione con Kasey Musgraves, cantante country, prende tutto il suo sapore. Quindi ci sono esperimenti digitali intorno a suoni veri e crudi, c’è il contrasto tra ciò che tutti i giorni percepiamo con gli orecchi e che riproponiamo con le parole.
In questo senso la voce di Coyne, la sua pasta sonora indecifrabile ma sempre così in bilico tra l’essere ingoiata dal resto e il mangiarci con quei reverberi tanto accoglienti, riesce ad essere ancora perfetta nel suo ruolo pur non tradendo il forte cambio “generistico” e testuale.
Interventi di chitarre elettriche magnifiche, secche ed asciutte tanto da percepirne il contorno ed il suo battito, ritmica sporca ed ambientale, terrosa fino a deviare su piccole distorsioni e slabbramenti, nel caso di qualche punta bassistica, elettrica o sintetica che sia. In altri momenti più orchestrali i bassi sono invece tondi e caldi, attenti a non sporcare le frequenze più alte ma comunque mai fresche come se fossero attutite da un panno sporco.
Ci sono immancabili rimandi beatlesiani, specialmente negli accompagnamenti pianistici che ricordano con gusto le mani di Paul o John, così come negli arrangiamenti di archi, in quella crudezza che all’improvviso affiora e che ti ricorda il piacere di beneficiare dei fabfour completati da un ruvido arco.
Alla fine dell’ascolto di quest’album risulta davvero difficile, anzi spiacevole, nominare qualche titolo, trattarlo come un altro disco qualsiasi. Ho l’impressione che qualunque episodio, esportato in un altro album, farebbe parlare di sé e vivrebbe a lungo di vita propria. Perché se loro si considerano “abitanti della terra”, il mio personale dubbio un po’ favolistico è che non vengano propriamente da questo pianeta.
Il suono è meraviglioso. Le canzoni sono suonate nella più nobile accezione, pur nella difficile forma finale di cui si vestono, prevalentemente non sono ingrigliate in bpm e metronomi e questo loro oscillare libere trasmette una sensazione necessaria a cogliere un ultimo piccolo aspetto di libertà che quasi ci stava sfuggendo; seguire e filtrare ogni cambiamento attraverso la propria sensibilità più totale e pura, per consentirgli di diventare finalmente altro, qualcosa di unico e a disposizione di tutti, questo è.
Quel famoso e sincero filtraggio tra ciò che ci arriva nelle orecchie e che riesce fuori dalla bocca dopo una lucida e in questo caso profonda riflessione.
In questo sta la vera grande sincerità di quest’album.