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REVIEWSLE RECENSIONI
01/09/2017
LCD Soundsystem
American Dream
La copertina di “American Dream”, col suo cielo cristallino e il logo del gruppo che si staglia ottimisticamente in primo piano, sembra invitare alla speranza e farebbe presagire un lavoro dal mood aperto, solare. Esattamente il contrario.

C'è un uomo che si sveglia nella stanza da letto di un posto che non conosce. Accanto a lui c'è una donna, hanno dormito insieme ma lui non sembra esattamente sapere chi sia. Fuori è ancora buio e l’effetto delle droghe prese durante la serata non sembra essersi del tutto attenuato. Si guarda allo specchio, vede che ha la barba lunga, lo sguardo sciupato. Non capisce bene ma lo farà presto, ci avvisa con noncuranza il narratore esterno usando un’impietosa seconda persona: presto il sole farà capolino dalla finestra e allora lui si vedrà per quello che è, invecchiato, confuso, sconfitto da una vita che non ha mantenuto le sue promesse. Ancora una volta, il Sogno americano pare una metafora vuota di significato.

James Murphy è tornato. Ha passato cinque anni in cui ha provato a fare di tutto, da aprire un bar con la moglie a produrre “Reflektor” degli Arcade Fire. Alla fine ha capitolato. Gli è venuta voglia di scrivere musica nuova e ha realizzato che farlo sotto un altro monicker o peggio, celando ad arte la sua identità, non avrebbe avuto molto senso. E quindi è tornato nell’unico posto al mondo dove le sue canzoni avrebbero potuto trovare casa: gli LCD Soundsystem.

È accaduto nel 2016 ed è stata la reunion dell’anno. O anche del decennio, se preferite. Qualcuno ha osato protestare accusando questo eccentrico musicista newyorchese di incoerenza, o addirittura lamentandosi del fatto che il Comeback della più importante band del nuovo millennio sarebbe stato offensivo nei confronti dei fan della prima ora, quelli che si sarebbero goduti il gruppo per davvero.

Lo posso anche capire. Che senso ha riempire il Madison Square Garden, fare uscire un live da tre ore, intitolarlo “The Last Goodbye” e poi tornare dopo soli cinque anni come se niente fosse?

Se ti accusano di incoerenza, forse tutti i torti non hanno. Sarebbe forse bastato non dire niente, sparire dalle scene, oppure anche parlare di pausa indeterminata e poi, quando nessuno se lo fosse aspettato, annunciare il proprio ritorno. Ma noi non siamo James Murphy e James Murphy fa bene a fare quello che vuole. Anche perché, ed è giusto sottolinearlo, subito dopo l’uscita di “This Is Happening”, aveva già dichiarato esplicitamente che si vedeva arrivato alla fine di un percorso. Ed era diverso tempo prima che ponesse ufficialmente la parola fine.

Comunque, queste sono solo speculazioni inutili. Ho visto gli LCD Soundsystem al “Primavera” dello scorso anno ed è stata una roba pazzesca. Per me che quando sbancavano ovunque io ero perso dietro ad altri suoni, quella è stata un’epifania. Concerto migliore dell’anno e tutti zitti e muti.

Adesso è uscito “American Dream” e ci tocca zittirci di nuovo. Perché non solo James Murphy è tornato ma è tornato anche alla grande, con un disco che riprende il discorso e lo porta avanti in maniera coerente aggiungendo al contempo nuovi sviluppi. Non è un disco nostalgico, non è un manieristico collage di autocitazioni. Questo lo si potrebbe pensare ascoltando “Tonite” o “Call The Police”, che sono due dei tre brani che ci siamo abbondantemente gustati prima del lavoro completo e che, sì, servivano forse più che altro a riallacciare i ponti.

In “American Dream”, però, c'è ben altro e ce n’è abbastanza per convincerci che è stato un bene tornare.

Ora, tornando alla scena iniziale, io non so se l'uomo della camera, che si guarda allo specchio aspettando l’alba che dichiarerà il suo fallimento, sia davvero l’autore di queste canzoni. Ma di sicuro è il perfetto simbolo di quello che è il filo conduttore di un disco che, per l’ennesima volta in questi ultimi anni, gioca sull’ambiguità di quel Sogno americano che ha nutrito decine di generazioni e che adesso, probabilmente, si è rivelato fasullo.

La copertina di “American Dream”, col suo cielo cristallino e il logo del gruppo che si staglia ottimisticamente in primo piano, sembra invitare alla speranza e farebbe presagire un lavoro dal mood aperto, solare. Esattamente il contrario. Penso di non sbagliarmi se dico che questo è il disco più scuro, più pesante che gli LCD Soundsystem abbiano mai fatto. In questo senso, però, appare come la prosecuzione di un percorso. Se nel primo lavoro si ballava molto, negli altri due si continuava a farlo con solo un po' di nostalgica malinconia a fare capolino, qui si può solo stare fermi a contemplare quel che arriva. C’è la Disco, c'è il Funk, c'è tutta l’elettronica di cui i nostri sono capaci ma, a parte le due canzoni già citate, che sono quelle più ammiccanti e Dance Floor Oriented, costruite come sono sul crescendo e sulla ripetizione di nuclei melodici nello stile tipico di brani come “All My Friends” e “Dance Yrself Clean”, il resto manifesta intenzioni alquanto differenti.

Prendiamo l’inizio: “Oh Baby” (scrivo le maiuscole per comodità e abitudine ma in realtà Murphy ha fatto la scelta di eliminarle da tutti i titoli) è giocata su un riff di Synth pulsante ed è una lenta marcia con un amaro retrogusto romantico. È un attacco inusuale, per questa band, che normalmente partiva con ben altre intenzioni. Qui sembrano voler scombinare le carte: iniziare con una canzone d’amore che però, lo si capisce presto, è in realtà il tentativo di cercare rassicurazione dalle brutture del mondo in un rapporto affettivo il quale tuttavia si rivela non sufficiente, forse anche illusorio. Una tematica, quella del fallimento delle certezze, di un presente cupo che avanza e non sembra poter essere contrastato, dell’invecchiamento come paradigma negativo di un mondo in rovina, che attraversa tutti i 70 minuti di questo disco, pur declinata in modi differenti.

La struttura dei pezzi, a ben vedere, aiuta ad esprimere questi passaggi: c'è sempre la stessa costruzione armonica ripetitiva, col crescendo dato dalla voce e dai vari elementi che via via si aggiungono; eppure, questa volta il risultato è meno dirompente. Rimane nell’aria sempre una certa tensione che fa fatica ad essere rilasciata e a volte non lo viene affatto.

Un esempio significativo di questo schema è dato dalla successiva “Other Voices”, un brano giocato su un ritmo incalzante di basso e percussioni, un gioco melodico che appare fortemente debitore del lavoro che Murphy ha svolto per “Reflektor”. È un brano che cerca di esprimere tutto l’incubo del reale, così come è nella testa del suo autore, e raggiunge il suo acme in un ritornello straniante e in dei Synth retro e volutamente eccessivi, quasi fastidiosi.

Soluzione ripresa in “I Used To”, altro episodio plumbeo e vagamente inquietante, mentre in “Change Yr Mind” il Funk chitarristico che si appoggia su un gran lavoro di basso, non riesce del tutto a stemperare il senso di isolamento che stiamo provando.

È stata sicuramente una scelta voluta, quella di realizzare una prima parte più trattenuta ed aumentare leggermente il ritmo nella seconda. “How Do You Sleep?” rappresenta in questo senso il vero apice del disco, coi suoi nove minuti di durata, il suo ritmo ossessivo di tamburi e un’atmosfera fredda, tipicamente Post Punk; la voce, poi, declama linee melodiche dal tono ansioso, quasi straziato da una paura a cui non si riesce a dare un nome, mentre il testo racconta di un tempo felice ormai lontano e di relazioni perse nell’autoannientamento (“You warned me about the cocaine/then dove straight in/in hiding/when there’s more for you/(…) you left me here/amid the vape clowns/I must admit I miss the mountain/but not so much you/one step forward/and six steps back”).

A metà brano arriva una sorta di esplosione ritmica e il tutto si carica ancora di più declinando in nuovo modo la ripetizione ossessiva della melodia. Si finisce a muovere la testa ma non c'è niente di liberatorio, solo una grande paura.

Sarà per curarci da tutto questo che “Tonite” apre l’ipotetico secondo lato. Abbiamo già detto: brano più LCD Soundsystem di tutto il lotto, dove finalmente si può scendere in pista (lo sottolinea anche il video di accompagnamento, che mostra la band impegnata ad eseguire il brano in quella che potrebbe essere la sala di una discoteca). Qui James Murphy si lascia andare ad uno dei suoi efficaci monologhi sul senso del presente musicale e sull’errore di prospettiva che attanaglia le giovani generazioni. È il discorso che faceva in “Losing My Edge”, dove si era ironicamente scagliato contro una cultura prettamente accademica e “nerdistica” del consumare musica, contrapposta all’avere davvero goduto di un determinato evento, vissuto nel qui e ora di un presente irripetibile. Il tutto senza rendersi conto che lui stesso, nel suo primo disco e in fondo nell’idea stessa della sua band, era diventato un “musicista curatore”, secondo la celebre definizione di Samuel Reynolds.

Su “Tonite” però, fa un passo avanti: “Tutte le canzoni dicono la stessa cosa”, parlano d’amore, utilizzano luoghi comuni, gli artisti sono tutti uguali, appiattiti sullo stesso modello. C'è stato un tempo in cui non era così? Forse (e a un certo punto lo dice anche) ma non ne siamo così sicuri. Del resto tutto il tono appare ironico, nel finale ci dice addirittura che quello che sta dicendo è tutta una bugia e persino l’andamento vivace e solare della musica dovrebbe fornire una qualche smentita. Rimane però la tentazione di pensare che il vero messaggio stia nell’ultima strofa, che non a caso rappresenta anche il raggiungimento del picco emotivo della canzone: “But out on the little rooms and into the streets/you lost your internet and we’ve lost your memory/We had a paper trail that led to our secretes/but embarassing pictures have now all been deleted/by versions of selves that we thought were the best ones/’till versions of versions of others repeating/come laughing at everything we thought was important/”. Potrà anche arrivare, in futuro, un’epoca in cui perderemo la nostra connessione ad internet ma non è detto che ne guadagneremmo: saremo già del tutto preda delle immagini di noi stessi, costruite ossessivamente nel tentativo di apparire migliori, di soddisfare i requisiti del mondo, tanto che riconquistare la nostra vera identità potrebbe essere un’impresa disperata. Vi sembra eccessivo? Forse, ma chi ha letto “Infinite Jest” di Foster Wallace (che è stato scritto ben prima che i Social cambiassero irrimediabilmente il nostro modo di comunicare) si ricorderà forse di quelle pagine in cui raccontava le ragioni del fallimento del video telefono. Ecco, non ci trovo questa grande distanza da quel che Murphy ci sta dicendo adesso.

E per aggiungere un ulteriore elemento di ambiguità, avete notato che, sempre nel video, Nancy Whang sta leggendo l’autobiografia di Morrissey? Come interpretare questa citazione? Esaltazione di un personaggio fuori dagli schemi o presa in giro di tutti coloro che si costruiscono un modello falso partendo da ciò che lui ha rappresentato? Ma forse stiamo esagerando. Forse ha voluto semplicemente inserire un sano tocco di nonsense all’interno di una narrazione troppo statica. Forse.

“Call the Police” è l’altro pezzo che conoscevamo già ed è un’altra gran bella cavalcata, dove si incrociano citazioni di Neil Young (come altro interpretate quel “We all know this is nowhere” dell’inizio?) e un messaggio politico piuttosto evidente, per un brano che, più che prendere di mira la presidenza Trump, sembra avercela col clima di odio, intolleranza e incomprensione che si respira in America negli ultimi anni (e che, beninteso, era ben presente anche durante il doppio mandato di Obama).

Il logico passo, a questo punto, è arrivare alla title track, che si apre con tastiere sognanti e un’atmosfera romantica e a tratti celestiale, se non fosse che al centro del discorso c'è ben altro, come abbiamo detto all’inizio. A ben vedere quindi, i tre singoli apripista, posizionati non a caso in un’unica sezione, sono quelli che meno rappresentano il disco dal punto di vista musicale, ma lo fanno benissimo dal punto di vista lirico. L’American Dream è finito: nel nostro modo di comunicare (con noi stessi e con gli altri), nella nostra capacità di costruire una società inclusiva, nella nostra gestione delle relazioni affettive e nella possibilità di poter essere davvero degli adulti responsabili.

Si chiude in bellezza con “Emotional Haircut”, che è tutta un’esplosione elettrica, per il brano più chitarristico di tutto il disco, quello dove il feeling tipicamente rock è più presente (e da questo punto di vista rappresenta una novità). In coda, i dodici minuti di “Black Screen”, un commosso saluto per pianoforte e Synth, con James Murphy che si rivolge con tristezza ad una persona scomparsa. David Bowie? Qualcuno lo ha ipotizzato, forte del fatto che i due erano amici e che, prima di prendere la decisione di ripartire col gruppo, Murphy si sarebbe consultato con lui. La sua risposta: “Non ti senti a tuo agio all’idea di fare questa cosa? Se non ti senti a tuo agio, allora vuol dire che stai prendendo la decisione giusta,” è stata resa pubblica da James stesso ed inserita indirettamente nel testo di “Other Voices”.

Chiunque sia il destinatario di quest'ultimo messaggio, la lunga parte strumentale alla fine, è anche il modo migliore, forse l’unico, per chiudere un disco così.

A voler fare i completisti a tutti i costi, ci sarebbe anche la traccia strumentale “Pulse” (v1), una sorta di fuga per sintetizzatore che il gruppo ha diffuso gratuitamente dalla propria pagina Facebook, poche ore prima della pubblicazione dell’album. James ha detto che il brano non ci stava sulla versione vinile (sarebbe forse entrato a stento su quella in cd) ma che lo aveva concepito come episodio di cui fruire subito dopo aver completato l’ascolto delle dieci tracce. Noi lo abbiamo fatto e dobbiamo dire però che non è del tutto in linea con quanto c'è stato finora. Rimane un esperimento interessante, nulla di più.

Occorrerà tempo per assimilare per bene “American Dream”. Ne abbiamo fatto una prima analisi, per forza di cose superficiale, perché questo è un disco ricco e stratificato, che richiederà pazienza e dedizione per essere compreso.

Nel frattempo si può però affermare con certezza che il ritorno degli LCD Soundsystem si candida a pieno diritto al titolo di disco dell’anno. Miglior Comeback degli ultimi tempi: al momento, solo i New Order di “Music Complete” possono azzardarsi a competere.