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REVIEWSLE RECENSIONI
07/10/2019
Tinariwen
Amadjar
Tinariwen è un insieme di musicisti tuareg attivi dal 1979 circa e Amadjar è il loro nono lavoro. L’esperienza di ascolto di un disco del genere - in un periodo come il presente in cui pare che dall’Africa si possa esportare soltanto pesantezza sulla nostra vita intoccabile e già perfettamente organizzata – è particolarmente consigliato.

Nati come canto spontaneo, non mi viene altra espressione e questo è davvero molto blues, nati dalla voce e chitarra artigianale di Ibrahim Ag Alhabib, a cui si sono uniti Alhassane Ag Touhami e Inteyeden Ag Ableine, due suoi connazionali del Mali ed esiliati come lui in Algeria, i loro canti si sono espansi nei campi Libici in cui Gheddafi addestrava i propri combattenti lungo gli anni Ottanta e Novanta, fino a farsi conoscere in Europa e molto lentamente dal resto del mondo nei venti anni successivi grazie a partecipazioni a festival di world music. Perché di questo si parla, di world music, di blues, chitarre slide, canti corali, frammenti di registrazioni, mozziconi da cui si origliano il silenzio e il buio del deserto, degli accenti ritmici funk, dei suoni gravi ma avvolgenti, dei bassi rotondi.  E della mancanza sotto di un metronomo che tenga dritta una canzone, anche di questo si parla.

Nella stragrande maggior parte delle cose registrate in studio che ascoltiamo le velocità sono tenute a bada ed ingrigliate da un metronomo che parte prima dell’inizio di una canzone e finisce dopo la fine. Necessario, fondamentale in quasi tutte queste situazioni, così come viceversa è necessario lo squilibrio di velocità del corpo umano, la percezione che possa cambiare, gli appoggi non marziali ma malleabili che possano allargarsi in un appoggio per restringersi in quello successivo. L’Africa è anche questa, così come lo era il funk dei Meters, il soul di Booker T. & the Mg’s, la maggior parte della musica fino al 1977-78 quando i sintetizzatori ed i campionatori, sdoganato l’ambito commerciale, hanno obbligato il resto delle strumentazioni umane ad essere in grado di dialogare con la loro rigidità e precisione.
Questa è la cosa che, forse più di ogni altra, è fondamentale sottolineare in questa esperienza di ascolto. Siamo presi per mano da dei musicisti e dalle loro sensibilità corporee, dalle frequenze pulite, asciutte all’inverosimile e prive (nella maggior parte dei casi) di reverberi artificiosi. Ciò che non deve trarre in inganno è che gli accenti ritmici sono coinvolgenti, c’è l’esigenza di muoversi, ballare, non c’è soltanto assopimento nella riflessione e nei cori.

La modalità di registrazione di quest’album, cosa che ho scoperto dopo averlo ascoltato, è stata esattamente come mi avevano lasciato immaginare; un luogo (in questo caso un camper) convertito dalla produzione francese in studio di registrazione, itinerante lungo i deserti della Mauritania, ogni sera si fermavano e allestivano lo stretto necessario per registrare la nascita di quelle melodie e quei ritmi sotto il cielo stellato. La fase successiva è stata un paio di settimane di accampamento con il coinvolgimento della cantante Noura Mint Seymali e del proprio marito chitarrista Jeiche Ould Chigaly, tutto registrato in poche take, senza l’utilizzo di cuffie, con relativi approfondimenti corali.
Allestite le basi delle canzoni del disco è giunto il momento di allargarsi alle influenze della musica occidentale con i feat di Warren Ellis dei Bad Seeds e il suo violino, il mandolino country di Micah Nelson (figlio per l’appunto di Wille Nelson), le chitarre di Cass McCombs, Rodolphe Burger e Stephen O’Malley di Sunn O))).

Ha davvero senso in questo caso, dal mio punto di vista, ovviare alla citazione di titoli che emergano nel disco o parole, proprio per la maniera in cui questo ascolto mi ha conquistato.
Le frequenze, non è un caso, fanno più delle parole, in questo frangente incomprensibili per un occidentale medio: sono inclusive, rappresentative, pazienti, sembra che ti guardino ed aspettino una tua reazione, una tua mossa di apertura e coinvolgimento.
E nonostante le musiche in questione abbiano tutte le caratteristiche per dilatarsi, la sensazione ascoltandoli con un po’ più di attenzione è che accada l’esatto contrario; mai una canzone che vada oltre la durata necessaria del raggiungimento del messaggio e quando questo è arrivato e ti stuzzica qualcosa dentro, la musica sfuma.
Eppure i suoni lunghi non fanno altro che stendersi come tappeti ed accoglierti. Forse ti accolgono in un album più che in una canzone. Forse ti accolgono in un mondo, più che in un disco. Forse il mondo in cui ti accolgono è desertico e quella sensazione di vuoto non fa che richiamarci a quell’innata sensazione umana di riempire spazi troppo vuoti.


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