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REVIEWSLE RECENSIONI
Always Centered at Night
Moby
2024  (Always Centered at Night / Mute Records)
ELETTRONICA
7,5/10
all REVIEWS
11/09/2024
Moby
Always Centered at Night
Always Centered at Night è un album che vale la pena ascoltare per un’atmosfera scura e suadente in grado di non abbandonarti mai, lasciando la sensazione di partecipare ad un dj set notturno in un piccolo club con un sacco di ospiti vocali che sono anzitutto amici e persone di cui si ha stima.

Stavo finendo di leggere la sua emozionante autobiografia Oltre ogni limite quando è arrivata la possibilità di ascoltare il suo nuovo disco e di poterne parlare.

Quando si legge un testo del genere, dove un autore parla di sé mettendosi a nudo, in un percorso narrativo costante e parallelo tra la sua infanzia che diventa adolescenza e il Moby adulto di una ventina di anni dopo, che non lo sa, ma sta per far uscire il disco che lo sparerà in cima al mondo, si resta impigliati in una ragnatela di sublime condivisione. Il male e le difficoltà dei suoi primi anni, in una famiglia spezzata e consumata dalla precarietà di anni lisergici e di libertà assaporate come in un innocuo loop di qualche battuta, catturano e incuriosiscono pensando al finale che noi spettatori pressoché onniscienti, conosciamo. E quindi ci chiediamo: come è stato possibile? Il successo planetario in cui un silenzioso bambino figlio di hippy si ritrova catapultato fino a ritrovarsi schiavo dai demoni del suo successo improvviso in una mente così fragile.
Per poi trovarsi dimenticato ma con un costante amico di fianco, a parte tutto: la dipendenza dall’alcol.

Quindi al centro del libro, al centro della sua storia, fatta di incontri stellari ed improvvisi, attrici, modelle, da una festa all’altra, droghe, personaggi assurdi che gli vendevano di tutto pur di intrattenerlo e passarci mezzora, fino a vedere tutti i giorni l’alba. Le minacce di Eminem, il weekend ospite di David Lynch, a cena da Bowie, suo vicino di casa, la prima uscita importante con Natalie Portman, Lou Reed addormentato sul divano, i risvegli nel tour bus in solitudine e irraccontabili dopo un’orgia finita male, le proprietà immobiliari sparse nel mondo dove neanche ci mette piede perché ha quasi dimenticato di possederle. E intorno a tutto ciò, il fantasma del passato che riemerge insieme ad una costante e sottile depressione che lo tiene sempre dubbioso di potere o volere farla finita.

 

È curioso come si legga il libro di un dj ma quasi si perda contatto con la musica, col motivo per cui l’hai conosciuto e per il quale sto scrivendo. Eppure è quel mondo riflessivo, apparentemente silenzioso di fronte ad una vita familiare ai limiti delle possibilità, ma con la profondità necessaria a farne tesoro, ricordare, riflettere, crescere con la mente e poterli testimoniare cinquant’anni dopo. Questo mi ha attratto tanto da volere ascoltare una sua cosa nuova, era in stretto contatto con la mia apertura alla sua storia personale e finalmente musicale.

L’ho conosciuto a Londra, fine 1999, in quel mese in cui stetti in quella meravigliosa città. Lo ascoltai nel quartiere di Soho, proposto da non so chi e rimase tra le tante cose nuove scoperte e suggerite in quelle settimane il cui ricordo è restato offuscato, come se quella continua e costante pioggerellina londinese mi si fosse appiccata alla memoria.

Poi tornai in Italia a inizio duemila e mio fratello mi confermò l’arrivo di un nuovo missile musicale imperdibile, Moby e Play erano arrivati anche al mio migliore spacciatore di musica. Tutto tornò.

 

Play lo feci mio. Apprezzavo quella maniera, a dire il vero (vista oggi)  semplice e scolastica, di stordirti con un lavoro computeristico. Loop, pochi accordi, spesso un riff di piano ripetuto che stavano sotto ad una voce dal sapore bluesy e vecchio. Perché per l’appunto quello faceva il buon Mobs (così lo chiamava sua madre). Prendeva voci isolate di vecchie canzoni blues e jazz della prima metà del secolo scorso, approfittando anche del decesso temporale del diritto d’autore, e le faceva sue, costruendoci sotto canzoni nuove. Archi finti per le aperture epiche, qualche chitarra a tenere alta la bandiera delle prime esperienze punk del nostro e le canzoni erano fatte.

Attenzione: sembrano semplici oggi queste cose, che dopo trent’anni, fare musica usando un computer è diventato per un musicista come imparare a fare benzina nel proprio veicolo. Allora non era affatto così frequente sapersi gestire e registrare, motivo per cui era ancora d’obbligo affidarsi a produzioni o studi esterni. C’erano però delle categorie di musicisti più propense all’autogestione e una di queste era sicuramente quella dei djs di cui Moby faceva parte.

Poi è uscito 18, altro bellissimo disco, ricco di quell’importanza che segue un periodo di splendore e di successo. E poi, lentamente, è uscito dal benessere compositivo. L’ispirazione si è nascosta. Un ultimo discreto disco a fine anni Duemila e poi roba dimenticabile e priva di aria buona.

 

Questo Always Centered at Night ha invece qualcosa di diverso. Innanzitutto è accompagnato dall’annuncio di un’imminente tournée autunnale in occasionale del venticinquesimo annniversario proprio di Play, con la particolarità che tutti i ricavati andranno in beneficenza ad associazioni animaliste. Oltre a ciò, nel disco sembra esserci uno scopo più rilassato e puro. Tredici canzoni condite da altrettanti ospiti vocali in cui il sapore è chiaro e inequivocabile; il coinvolgimento reciproco, il piacere di esserci e scambiarsi.

La percezione è quella di trovarsi in un dj set notturno, club da 3-400 persone e in alto a questa postazione in cima alla scala, ben nascosto da un po’ di attrezzatura, delle bevute e acceso a sprazzi dalle luci stroboscopiche c’è lui, Moby che gioca col missare le proprie basi tra loop di batteria jungle o trip hop, bassi tondi e continui come in un territorio dub appena più velocizzato. I giusti interventi di synth, non costellazioni di arrangiamenti epici ed emotivi che nei primi due album erano protagonisti. Accanto a lui, in una pedana appena più bassa ma stavolta piuttosto illuminata, i vari feat vocali in precisa e rigorosa alternanza. Sì, lo ascolto e l’immagine non può essere che questa.

 

Il disco scorre benissimo, il suono è pulito e tenuto a bada pur avendo tra i propri principali scopi il coinvolgimento. È un disco da ballare, con stile, senza frenesia, i bpm non sono mai schiacciati ma tenuti nei binari giusti, come la scuola della dance comanda.

Le canzoni non mi fanno gridare al miracolo al primo ascolto, sarò sincero. Mi verrebbe da dire che in certi punti lascino appena a desiderare o comunque stiano un poco sotto rispetto all’emotività che mi trasmettono ancora oggi all’ascolto "In my heart"  o "Porcelain", per dire. Sento un sobbalzo durante l’ascolto, ma noto che mi arriva su "we’re going wrong", omaggio ai Cream. Forse un piccolo appiattimento compositivo e generale c’è. Ma non è necessariamente una bocciatura. Dipende se il disco trova comunque la propria strada per arrivare.

 

Mentre scorro i feat mi rendo conto di conoscerne soltanto uno. Potrei essere io uno scarso ascoltatore della nicchia che Mobs ha voluto omaggiare, è possibile. Ma mi incuriosisco e cerco ogni feat, uno a uno, per vedere i loro freddi e odiosi numeri, mi perdonino. Beh, solo uno supera il milione di ascolti su Spotify, il resto sono persone non esplose, il cui feat con Moby è al primo posto tra le più ascoltate sulle piattaforme. Artisti sicuramente bisognosi di un feat del genere ma soprattutto cantanti che Moby adora e che ha percepito come giusti all’interno dei suoi brani e questo è sano e magnifico.

Ascolto l’ultima ed è finalmente bellissima, una voce maschile da brividi. Ho il sospetto che valga la pena ricominciare, che forse mi sono perso qualcosa.

 

Le voci: sono loro le protagoniste dell’album. Ed è lì forse che si è rifugiata tutta la cura destinata a emozionare, che in passato con l’utilizzo di voci in loop veniva “raffreddata” in partenza. O comunque il suo aspetto ripetitivo faceva parte della forza dell’ingrediente. Una cosa ripetuta in maniera ossessiva non fa che rafforzare e dare una linfa di vita a ciò che ha intorno, che diventa a quel punto l’unica speranza dinamica e di anima del pezzo.

Il soul man Serpentwithfeet apre le danze con una delicata "on air", ballata dal sapore gospel e con un armonico richiamo a "No surprises". E l’armonia risentendola è proprio attorcigliata al resto per renderla memorabile. Bella.

"Dark Days" affidata alla queen Lady Blackbird si posa ancora sui dei passi molto sopiti e distanziati, affidando ad un inizio ancora gospel la marcia di questo brano che poi si sviluppa grazie ad un semplice groove quadrato e lounge.

Un ritmo incalzante ed ossessivo, tipico del territorio dei Fatboy Slim, sposa la voce black ed effettata del compianto Benjamin Zephaniah, stimato poeta britannico, punta evolutiva del nuovo reggae incarnatosi nella dub poetry e conosciuto dai più per aver interpretato Jeremiah Jesus nella serie Peaky Blinders. Attivista animalista e vegano, crea con "where’s your pride?" un punto d’incontro naturale con Mobs.

 

"Transit" è affidata a Gaidaa e si prende lo scettro di miglior track fino ad adesso. Ventunenne artista del Sudan ma con residenza olandese, porta con la sua delicatezza vocale l’ascolto ad un livello superiore. Rimandi soul e pop che si incarnano in un’ipotetica fusione tra Arlo Parks e gli archi abituali di Moby.

Danae canta "wild flame" mettendo un grosso asterisco nel disco per quanto concerne un ipotetico punto d’incontro tra il trip hop e la lounge, dove intorno ad un groove piuttosto stabile e controllato Danae risulta libera di giocare a cantare qualcosa di soul senza tuttavia incidere.

Sarà infatti la successiva "precious mind" ad ammaliarci con la sua atmosfera serena e rilassata che perfetta si incontra col timbro pop di India Carney, cantautrice nativa di Brooklyn NY. Un altro punto alto e piacevole.

 

Un timbro terribilmente accattivante e familiare mi lascia drizzare le orecchie. Penso a Corey Glover dei Living Colour ma anche e soprattutto all’unico Soulman di diritto, Sam Moore del duo Sam & Dave. Un timbro speciale che avevo infatti già conosciuto; J. P. Binemi. Ascoltare per credere. La canzone non fa miracoli, fa ciò che deve affinché questo tipo di intrattenimento generistico più di ascolto e passaggio, di ballo garantisca per funzionare. Di certo una cosa col compito di far ballare non deve di certo incantarti, altrimenti rischieresti di smettere di ballare, giusto? Leggerezza.

E la cosa continua anche con la successiva "feelings come undone", che ti strappa un sorriso grazie a quel richiamo impossibile da non cogliere di Gispy Woman, con quel suo organo digitale di fine anni ottanta e quel tormentone “La da dee la dee da” a spaccare in due l’estate del 1991. Raquel Rodriguez la fa propria e tiene il ruolo, da degna rappresentante della presente scena R&B quale sta diventando.

Aynzly Jones è ai miei orecchi un totale sconosciuto e ne approfitto per scoprirlo. La canzone "medusa" è l’unica cosa presente sulle piattaforme ma sul suo sito si trova roba scaricabile e comprabile. Vedere vendere a questi livelli roba sul proprio sito mi dà una sensazione strana e poco abituale ma assolutamente giusta e da sostenere. E chiudo subito una parentesi che, se aperta e approfondita, durerebbe quanto un altro articolo intero. La canzone è interessante, il suo timbro black riesce a far respirare le proprie origini giamaicane così come le continue influenze date dal sottobosco londinese e di L.A. con cui è abituato a collaborare.

 

Torno a bomba, in questo riscorrimento dell’album, sull’unica che mi aveva scossa al primo ascolto, la cover dei Cream "we’re going wrong". Mi aveva forse colpito per una sua spina dorsale armonica che l’aveva resa istantaneamente più vincente, grazie inoltre all’apporto della voce eterea di Brie O’Banion. Fatto sta che pur confermando la buona sensazione d’ascolto, non riesce stavolta a superare l’emozione bella arrivatami in altri punti.

Akemi Fox canta la bella "fall black" tenendoci perfettamente ancorati all’ambiente notturno e soft dance.

"Sweet Moon" è una sorpresa per almeno un paio di motivi; la chitarra, appena sporcata da un crunch, con questo suo riff posato e paziente che ci mette una mano sulla spalla e la voce di Choklate, autentica soul singer americana capace di ipnotizzarti con un timbro ed un’espressività che sono un’unica cosa.

 

Tocca all’emozionante "ache for" porgerci il saluto e lo fa nel migliore dei modi. Ricordate quel brivido che mi aveva scosso sull’ultima canzone per quella voce maschile che distrattamente mi aveva trafitto? Eccoci. Si chiama José James e mi perdoni se non lo conoscevo. Vi garantisco una scoperta, di timbro, profondità, colore. Ne avrete bisogno.

"Ache for" è una ballata lenta, straziante, affidata ad un piano, degli archi che salgono e ti avvolgono insieme a quella mano sulla spalla partita da Choklate, fino a lentamente sparire e lasciarti da solo con quel loop di spazzole sul rullante che ci sono da sempre e che non avevi neanche notato. Un capolavoro che non mi aspettavo, ma in cui assolutamente speravo.

"What do you ache for? What do you breathe for? What do you dream for?"

Una canzone che da sola mi basta a portare questo disco ad un livello differente, perché da questo momento avrà preso un’identità precisa e inattaccabile.

 

Always Centered at Night è quell’album che varrà la pena ascoltare per un’atmosfera scura e suadente in grado di non abbandonarti mai, con quelle quattro perle che brillano di luce propria e quel capolavoro di musica contemporanea con cui ti lascia bere l’ultimo drink al balcone, con la luce accesa dentro mentre qualche dipendente inizia le prime pulizie e l’alba, puntualissima, che ti aspetta là fuori, come se fosse lì da sempre.