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REVIEWSLE RECENSIONI
09/02/2018
Franz Ferdinand
Always Ascending
Un disco fighetto e stiloso, e questo si poteva immaginare, ma anche effimero e privo di quel tiro che in passato ci aveva lasciato a bocca aperta.

Scriviamo canzoni solo per far ballare le ragazze”. Il senso di tutta una carriera, inutile girarci intorno, risiede proprio in questa affermazione di Alex Kapranos, risalente agli esordi del gruppo. Una dichiarazione d’intenti, questa, realizzata fin dal folgorante debutto del 2004 (Franz Ferdinand) e riproposta, poi, nel corso degli anni, con minimi scarti rispetto alla matrice originale.

Bravi ad accodarsi con furbizia (e intelligenza) all’onda lunga del revival post punk, Kapranos e soci, senza inventare nulla di nuovo, hanno plasmato nel tempo un suono figlio di tanti genitori (Talking Heads, Gangs Of Four, etc.), ma riproposto con una freschezza e un entusiasmo festaiolo che li ha giustamente esposti mediaticamente all’attenzione di critica e pubblico. Un percorso, il loro, tutto sommato riuscito, nonostante ogni disco replicasse il concetto base, con giusto qualche leggera deviazione dalla strada principale (la breve deriva dub di Blood).

Non hanno mai sbracato, i Franz Ferdinand, e anzi il discreto Right Thoughts, Right Words, Right Action (2013) e la brillante collaborazione con gli Sparks, benedetta in FFS (2015), faceva pensare a una band ancora in buona salute e capace di qualche ulteriore interessante guizzo. Nel frattempo, però, Nick McCarthy (chitarra e tastiere) se ne è andato (è stato sostituito da Dino Bardot alla chitarra e Julian Corrie alle tastiere), lasciando la band orfana di quel surplus di inventiva e ispirazione che fino a oggi aveva fatto la differenza e tenuto in piedi la baracca.

Sarà un caso (francamente non credo), ma Always Ascending risente molto della mancanza di McCarthy proprio a livello compositivo (il suono, quel suono, resta più o meno lo stesso), che è il punto debole di un disco che risulta privo di canzoni degne di futura memoria. Non è cambiato il menù e la proposta è più o meno la stessa: una miscela, altre volte risultata vincente, in cui convivono anni ’80, funk, brit pop, new wave, tutti elementi che, nello specifico, vengono tenuti insieme da un collante più marcatamente dance rispetto al passato.

L’impressione, però, è che a essere cambiato sia il cuoco, perché le pietanze risultano  piuttosto insipide, e anche la maggiore spinta sui suoni elettronici, che dovrebbe essere il valore aggiunto di questa nuova scaletta (c’è lo zampino di Philippe Zdar – leggi anche Cassius e Phoenix), aggiunge poca sostanza a idee già note. Un disco fighetto e stiloso, e questo si poteva immaginare, ma anche effimero e privo di quel tiro che in passato ci aveva lasciato a bocca aperta.

Tra groove funky risaputi (Lazy Boy), ballate tanto impostate quanto algide (The Academy Award), bigiotteria synth pop anni ‘80 (Lois Lane, Glimpse Of Love) e tamarrate senza senso (la terrificante Huck And Jim), la cosa migliore del disco risulta il singolo Feel The Love Go, esplicito invito al dancefloor, a cui un bel assolo di sax in coda regala il primato nel podio degli high lights del disco. Un po’ poco davvero per un ritorno che, senza voler essere eccessivamente punitivi, potremmo definire semplicemente prescindibile.