Villa Pirondini, Rio Saliceto-San Lodovico, per amor di cronaca, provincia, ovviamente, di Reggio Emilia. Adesso è disabitata da più di vent’anni e da qualche anno è anche inagibile, le ferite del sisma del 2012 non sono ancora rimarginate, è visitabile solo dall’esterno, reliquia di un tempo andato. Alcune case hanno delle ferite nell’anima, più che nella struttura, ematomi sottocutanei di un costante stato di agitazione, di rigorosa precarietà.
Villa Pirondini si porta sulle pareti i segni di una dignitosa solitudine, che la fanno diventare un luogo parlante, vivo oltre la vita stessa. Uno di quei luoghi destinati ad influenzare chi ci gira intorno: non può essere un caso che Epica Etica Etnica Pathos sia nato così precario e così incinto.
Dai testi di Ferretti, sempre più ascetici e intimi e meno sloganistici, a timbri musicali meno affilati e meno grattugiati, fino alla parte grafica, curata da Luigi Ghirri (un altro a cui, a proposito di maestri, siamo tutti debitori, anche chi non lo sa): tutto richiama instabilità, quantomeno instabilità rispetto a ciò che era stato fino a lì.
Probabilmente è lo stesso momento storico a far respirare incertezza, fine imminente di qualcosa.
Per capirci, è il 1990, a marzo Gorba?ëv è stato eletto Presidente dell’Unione Sovietica, pronto a sparare le ultime cartucce, già ben a salve, di blocco orientale. Ad aprile i nostri, in versione famiglia allargata dopo la “campagna di Russia”, ma questa è un’altra storia, che probabilmente sapete già, cominciano a registrare (quasi interamente in presa diretta) il disco. “Colonizzano” Villa Pirondini fino a giugno: suonano, scrivono, abitano lì, mangiano lì, fanno tutto lì.
Ghirri nel frattempo scatta. Viene fuori la copertina. È la sala missaggio. O meglio, è la cappella di Villa Pirondini, riadattata a sala missaggio. Ecco la condensazione grafica della precarietà.
Non c’è traccia di presenza umana, in quella copertina. Solo cavi, casse, mixer, flight case, strumenti accatastati alle pareti, da cui pendono intonaci scrostati, come se la dissoluzione di un mondo intero ci stesse avvenendo davanti. Uno still life più potente di un saggio storico, la cristallizazione di uno zeitgeist perfetto: il rumore dello smarrimento.
Ed è una storia, quella della precarietà, che, nei fatti, i C.C.C.P. si sono sempre portati appresso. C’è sempre del disagio, uno sporco di fondo, per chi suona in provincia: il fatalismo ci appartiene, ci si appiccica addosso come la polvere di certe strade di campagna nelle giornate di vento.
Massimo Zamboni e Ferretti Lindo Giovanni lo hanno mascherato sotto l’imponente iconografia filosovietica e la ieratica acidità di un punk scomposto, lirico e poetico come forse nessuna sua manifestazione era stata prima di allora, ma c’è, sta lì, rimane pulsante, ed il fatto che, al collasso di tutto, venga fuori in una rappresentazione così intima e detonante è la prova ontologica della sua stessa esistenza.
È una storia nella storia, quella di questo live ritrovato, come una matrioska.
Perché se le foto di Ghirri per il canto del cigno dei C.C.C.P. sono state cartina tornasole dei pezzi di una dissoluzione, questo Altro che nuovo nuovo è epifania sonora di un altro esatto momento della storia d’Italia.
Sono sempre stato convinto che la musica sia il modo migliore per tastare il polso del tempo: poche cose possono raccontare timori e tremori dell’800 come la Quinta di Beethoven, e nessun saggio sugli Anni di Piombo avrà la stessa resa densa di “Piazza, bella piazza” o “Agosto” di Claudio Lolli.
Allora arriva così, questa registrazione del primo concerto dei nostri, come un documento storico di un’epoca lontana, in cui era assolutamente normale che la gente uscisse di casa per ascoltare un gruppo di misconosciuti punk in una palestra, e applaudirli anche.
È, questa dei C.C.C.P., la riscoperta di una esperienza musicale necessaria, fosse anche solo per il fatto che la polvere del tempo le ha ridato spessore e rotondità. Lo ha fatto con gli sbreghi disturbanti delle chitarre di Zamboni.
E lo ha fatto con le parole di Ferretti, lucidate dalla loro stessa contemporaneità, diventate un po’ come gli Altri libertini di Tondelli, come quelle opere che, scritte per una precisa generazione, finiscono per essere talmente trans-generazionali da continuare a parlare forte e chiaro anche a quelle successive.
Altro che nuovo nuovo è tutto questo, è l’inizio di una evoluzione continua, degli ex MitropaNK, dell’Emilia, della Berlino industriale e di quella islamica, e prima ancora di benemerite soubrette e artisti del popolo. Ed è anche chitarre scordate, batterie fuori tempo, equalizzazioni ruspanti, il fruscio delle bobine. Ma d’altro canto, se vi aspettavate altro, il problema probabilmente è vostro.
È un live con due inediti e mezzo, che però fanno il paio con le altre quindici tracce, che a loro volta finiscono per disegnare un diario di bordo della gestazione delle canzoni: il quartetto (mancavano ancora Annarella e Fatur, ma c’erano Zeo Giudici, fratello della stessa Annarella, alla batteria e Umberto Negri al basso) arriva al primo concerto della sua carriera con praticamente le strutture portanti di “Affinità/ Divergenze” e “Socialismo e barbarie”. Possiamo sentire le “cellule madri” di quelle canzoni che verranno modificate più o meno radicalmente in studio.
Una roba semplicemente incredibile.
E allora si parte con una “Live in Pankow” già programmatica e tiratissima, con la batteria a pestare cupa sui cortocircuiti elettrici della chitarra e sul basso cingolato.
Anche “Punk Islam” scorre più secca del solito, col pattern ritmico a guerreggiare e la chitarra a grattuggiare dissonanze sulla voce ieratica di Ferretti.
“Sexy Soviet” (che altro non è che la forma prima di “B.B.B.”) cammina lungo le trame marziali tessute dalla batteria e scavate dal basso, cucite da una chitarra ostinata e straniante.
La mitologica “Militanz” si lascia scarnificare dalla chitarra acidissima di Zamboni e da una batteria che è come una gragnuola di cazzotti.
A seguire arriva una “Onde” che è inedita solo per chi non ha avuto la fortuna di andare a Reggio Emilia a vedere la mostra celebrativa per i quarant’anni dall’esordio. Una batteria apocalittica, fulminata dalle tensioni affilate della chitarra elettrica e da un basso cavernoso, a scandire un testo incredibile, avanti di almeno un paio di decenni: da “In balia delle onde/ Sollevato dalle onde/ Innalzato dalle onde/ e ributtato giù” per finire con “Onde di naufrago/ Onde magnetiche/ Onde infinite/ Inesauribili/ Onde sfasate/ Onde di cielo/ Onde di schiuma/ Onde di nero/ Onde sperimentali/ Onde fantasma di notte/ Onde analitiche/ Onde concentriche/ Onde di sperma gelido/ Onde di piombo liquido”.
“Stati di agitazione” cammina lungo le architetture escheriane della chitarra, doppiate dal galoppare asfissiante della batteria.
“Trafitto” ci arriva nella sua versione più sghemba, col basso a far ruggire i glissati, la chitarra ad arpeggiare spastica ed una batteria che tira tutto in avanti.
Una nerdata per gli amanti degli ambienti più musicalmente spigolosi degli anni Ottanta è “Kebabtraume”, cover dei leggendari D.A.F. (Deutsch-Amerikanische Freundschaft) arroventata da un basso muscolare e una batteria secca.
Giro di boa del concerto è una “Manifesto” che riapre a tempestose piogge di chitarre elettriche, sostenute da una figurazione ritmica dal sapore desertico.
“Valium Tavor Serenase” arriva come un cazzotto in bocca, un minuto e ventisette di elettricità serrata con l’intermezzo di “musica melodica emiliana” dissonato da una chitarra sporchissima.
A seguire arriva una monolitica “Tu menti”, segnata da una detonante linea di basso, da una batteria incessante e dal fulmicotone sparpagliato dalle schitarrate.
Con “Mi ami?” si arriva nel situazionismo, con una chitarra che definire scordata è farle un complimento, una batteria a pestare (acceleratissima) continui fill ed un basso che riesce miracolosamente a cucire tutto. In ultimo, un Ferretti alle prese con la sua prova vocale più “sporca” del concerto. Però dal pubblico parte uno dei pochi “bravi” dell’intero concerto, e probabilmente è già tutto lì dentro.
“Morire” (ancora senza quel fenomenale “Lode a Mishima e Majakowski”, ma con già l’altrettanto celeberrimo “Produci consuma crepa”) si apre sull’arpeggiare scordato della chitarra, per scorrere lungo un’atmosfera sulfurea, in cui gli sfumati marziali del charlie sono come fumi industriali.
“CCCP” è segnata dallo scorrere umido del basso, che finisce per riverberare la cassa, con un Ferretti che declama orgoglioso il manifesto artistico del gruppo. “Fedeli alla linea/ la linea non c’è”: era già tutto lì, quarant’anni fa, e ancora fatichiamo a capirlo.
Arriva una “Noia” compassata e metallica, squarciata dalle abrasioni zamboniane ed addolcita dalle melodie del basso, con un Ferretti in crescendo sloganistico.
“Sono come tu mi vuoi” è, forse, il momento che più di tutti abbraccia il punk nudo e crudo: dinamiche essenziali, batteria a cavalcare, chitarra a sferragliare distorsioni, basso a cucire, voce sguaiata in resta.
Penultima traccia è una spettrale e cingolata “Emilia paranoica”, scavata dalle nevrosi elettriche della chitarra, da un basso asfissiante e da una batteria “secca e tesa”.
A chiudere il lavoro ci pensa il più inedito fra gli inediti, quella “Oi Oi Oi” dal sapore Devo su cui Ferretti è un fiume in piena, perfettamente accordato ad una chitarra torrenziale, ad una linea di basso che è un treno e ad un pattern ritmico sempre esuberante. A corroborare il tutto, un inizio profetico, che in realtà contiene praticamente tutto: “E sì, è un po’ tardi per credere in qualcosa, in una cosa qualunque, in qualcuno, in un qualcuno qualunque. È già successo tutto, tutto è stato, non è più qui, non c’è, non è più qui, non è”.
“E si rimane così, magari un po' perplessi, su treni fuori orario, scendendo scale mobili, aspettando un passaggio che non so se verrà, ma non credo che venga”.