L'estate scorsa, mentre passeggiavo sulle mura di Lucca in attesa del concerto dei New Order, capitai davanti al “Museo della follia”, la mostra itinerante curata da Vittorio Sgarbi che in quei giorni era ospitata proprio nella città toscana. Fu un'esperienza molto forte e nonostante il tema non fosse esattamente al centro dei miei interessi, rimasi dentro molto di più dell'ora scarsa che mi ero prefissato, incapace di staccarmi dai quadri e dagli oggetti esposti. Cos'è esattamente la follia? Esiste davvero? Oppure è una categoria mentale che solo lo stabilire in linea teorica che cosa sia davvero la normalità, ci rende necessario bollare come inadeguata, esattamente come tutto ciò che esce dai parametri che ci siamo prefissati?
O ancora, ammesso che ci sia un uso della ragione corretto ed uno che non lo è, questo ci dà il diritto di trattare come oggetti quelli che, seppure incomprensibili e lontani, sono comunque esseri umani come noi?
Prendete la storia di Ida Dalser, la donna trentina che fu amante di Mussolini e che ebbe da lui un figlio quando costui era ancora semplicemente il fondatore de “Il popolo d'Italia” e che negli anni successivi alla marcia su Roma subissò di richieste insistenti perché il giovane Benito Albino venisse riconosciuto dal padre. La cosa venne tenuta a bada per un po’, principalmente facendola gestire al fratello Arnaldo, che tenne i contatti con madre e figlio, oltre a trasmettere una somma annuale a scopo di mantenimento. Ida però non si calmava e quando il Duce reputò che la sua figura fosse divenuta troppo ingombrante, la fece rinchiudere in manicomio, dove fu sottoposta alle pene dell'inferno, fino alla morte avvenuta nel 1937.
La vicenda è piuttosto nota, essendo stata trattata più volte da cinema, teatro e televisione; ciononostante, sentire Giorgio Canali cantare brani di una lettera della donna, parole dure e a tratti intollerabili, sopra un tappeto glaciale di Synth, non può non provocare più di un brivido lungo la schiena; il pensiero torna inevitabilmente a quel museo, in particolare alla stanza con gli effetti personali di alcuni pazienti e delle loro lettere, a rimarcare il sentirsi fuori dal mondo, isolati, esclusi perché scomodi ma con un insopprimibile desiderio di essere visti e amati.
Il quarto volume di “Alone” parte da qui. Da questa sottile linea che separa la sanità mentale dalla follia, la ragionevolezza e l'irragionevolezza, l'inserimento in una comunità e l'esserne irrimediabilmente separati.
C’è un tarlo in copertina, il quarto “animale guida”, simbolo e metafora di ciascun episodio. Il tarlo è colui che rode, scava e porta paradossalmente a nuove scoperte, apre porte che non si pensavano e forse non si volevano neppure aprire. La follia, dunque, a chiudere in maniera emblematica questo mastodontico progetto, quasi senza precedenti nella storia della musica, sicuramente mai visto nel nostro paese.
L'emergenza Covid ha fatto per un momento considerare a Maroccolo e Contempo di far slittare i tempi di pubblicazione ma alla fine (e per fortuna, diciamo noi) ha prevalso l'esigenza di mantenere le scadenze prefissate all’inizio: due uscite all'anno, a giugno e a dicembre, sempre il 17 del mese. Una routine che consideravamo ormai necessaria, così che quest’ultima pubblicazione ci permette finalmente di tirare le somme su un'opera che, nonostante il sottotitolo “disco perpetuo” è stata capace, nel suo lungo divenire, di mutare aspetto, di sviluppare diversi temi, di aprire parentesi e cominciare narrazioni. Non facile da seguire, a tratti anche noiosa, eppure sempre misteriosamente affascinante, impossibile da interrompere.
Quarto volume dedicato agli outsider così come il precedente, che era incentrato sulla violenza sui bambini, introdotto ancora da un racconto di Mirco Salvadori (“Bombo” è in questo caso un bozzetto di toccante tenerezza) e sempre impreziosito dalle illustrazioni di Marco Cazzato; solo, leggermente diverso nella formula: niente più lunghe composizioni strumentali, il percorso viene scandito attraverso dieci tracce di cui l’unica piuttosto lunga è la prima, che dura otto minuti. C’è anche una maggiore presenza della forma canzone, con più di un episodio che ha testo e linee vocali e qualche cosa che assomiglia addirittura al classico cantautorato (“Ogni luce”, con la sua atmosfera minimale piano e voce, affidata ad una intensissima interpretazione di L'Aura, ma anche “E mentre tu giri, giri e giri, io ti guardo”, chitarra acustica e i vocalizzi di Umberto Maria Giardini, un brano che parte in chiave sognante e si riempie poco a poco, in un crescendo che ha dentro di sé qualcosa di vagamente disturbato).
Al di là di tutto, neppure questa conclusione della tetralogia, malgrado la formula più snella e la durata leggermente inferiore alle parti precedenti, si presenta come particolarmente fruibile. Ci sono un paio di brani che parlano il linguaggio dell'Ambient e della musica classica contemporanea (splendida “Hotel Adieu”, dove l'accoppiata Laura Bisceglie/Teho Tehardo disegna paesaggi oscuri e accentua il senso di isolamento) e c'è un'apertura, “T.S.O. X”, che cambia forma in continuazione e dove succedono un sacco di cose, dalle prime note affidate al sax, al Synth che ricama tessiture armoniche in stile Four Tet, fino ad un'esplosione chitarristica che le dona un feeling rock finora quasi inedito, grazie anche al pestare furibondo sulle pelli di una vecchia conoscenza come Luca Martelli. In mezzo, il solito Canali che su un tappeto elettronico scandisce parole come “normale”, “subnormale”, “animale” “minimale”, perfetta introduzione al tema del disco.
L'ex compagno di Marok nei CCCP/CSI è protagonista anche in “Sociopatia”, altro episodio glaciale, dove su campionamento di Matilde Benvenuti e Flavio Ferri riprende alcuni versi della sua “Undici”. È un'altra bellissima tessitura elettronica col basso che si staglia su voci campionate, che danno un'aria di fredda solennità.
E non dimentichiamoci di “Sognando”, che Don Backy scrisse nel 1971 e che Mina reinterpretò, portandolo al successo, nel 1978, quando l’approvazione della legge Basaglia aveva reso più attuale e comprensibile un testo che, se pensiamo all'anno in cui fu scritto, doveva risultare particolarmente scomodo. Si parla di amore e alienazione mentale, il senso di sdoppiamento e dissociazione reso anche fisicamente dall'alternarsi al microfono di Edda e di un sorprendentemente tonico Don Backy. Spoiler Alert: ritroveremo questo pezzo cantato dal solo Edda nel disco che Maroccolo e l'ex Ritmo Tribale hanno fatto insieme e che uscirà a fine mese ma la versione qui presente è molto più tetra ed evanescente e probabilmente più riuscita.
Il disco perpetuo si conclude qui ma sarebbe un peccato liquidare il tutto e passare ad altro: in un'epoca di costante accelerazione come la nostra, oltretutto senza potere più godere dei concerti, “Alone” sfida esplicitamente i nostri tempi di concentrazione e ci impone di rimanere in costante ascolto del suo messaggio. Riusciremo ad esserne all'altezza? Ciascuno dovrà provare a darsi una risposta. Nel frattempo, vi posso assicurare che vale la pena provarci...