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REVIEWSLE RECENSIONI
24/02/2020
Son Little
aloha
Aloha è un disco di black music quasi lo-fi, attraversato da un sottile respiro malinconico e fluttuante in una dimensione atemporale, ove vintage e contemporaneità si fondono in un unicum indistinguibile.

Nell’onda lunga di quanti rileggono in modo contemporaneo un suono dalle radici antichissime, fra tanti personaggi saliti alla ribalta negli ultimi anni (Michael Kiwanuka, Curtis Harding, Black Pumas, etc.) si inserisce dalle retrovie anche Son Little, moniker sotto cui si cela Aaron Earl Livingston, polistrumentista e songwriter originario della Pennsylvania. Son Little (l’aka è un evidente omaggio ai grandi bluesman del Delta) ha già alle spalle un paio di dischi a proprio nome e diverse collaborazioni di peso, prime fra tutte quelle con The Roots, RJD2 e Mavis Staples. Ciò nonostante, a differenza degli artisti citati, Livingston è rimasto ai margini del circuito mediatico e, soprattutto dalle nostre parti, resta un musicista ancora tutto da scoprire.

Registrato in soli otto giorni presso gli iconici Studios Ferber di Parigi con il produttore Renaud Letang (Feist, Manu Chao), aloha è il primo album di Son Little ad essere prodotto da un collaboratore esterno. Un disco di black revival, come molti se ne ascoltano in questo periodo, che però si discosta per una lettura del genere decisamente personale, che miscela r’n’b e soul di derivazione classica a un suono più moderno e a intuizioni originali.

Son Little cambia il consueto approccio, preferisce togliere che aggiungere, facendo pienamente sua la regola “less is more”. A differenza di Michael Kiwanuka, musicista oggi sulla cresta dell’onda, sempre molto attento alla ricchezza del suono, Son Little preferisce lavorare per sottrazione e giocarsela sul contrasto fra vuoti e pieni. Gli arrangiamenti sono decisamente minimal, anche se spesso illuminanti, e gli strumenti entrano nelle canzoni in punta di piedi, quasi chiedendo il permesso, come a non voler disturbare l’ascolto della voce ruvida e appassionata di Livingston.

Il risultato è un disco di black music quasi lo-fi (non è un caso che i titoli delle canzoni siano tutti in minuscolo), attraversato da un sottile respiro malinconico e fluttuante in una dimensione atemporale, ove vintage e contemporaneità si fondono in un unicum indistinguibile.

Dodici canzoni in scaletta e quasi tutte bellissime: il singolo hey rose, costruito su una distorta linea di basso e con un tiro melodico che, anche nel cantato, ricorda un po' i N.E.R.D. di Fly Or Die, about her. again, classicissima ballata soul, che gioca sul contrasto fra una batteria riverberata e vuoti di silenzio che danno spazio al cantato afflitto di Son Little, la dolcezza eterea di suffer, capace di sciogliere in lacrime anche il cuore più indurito dalla vita, o la liquida bellezza delle tastiere di don’t wait up, altra ballata che stringe l’anima in una morsa di lacrime e commozione (e che meraviglia quella chitarrina svagata e al contempo malinconicissima).

Chissà se con questo nuovo disco, Son Little riuscirà ad attirare su di sé l’attenzione che merita e a ritagliarsi gli spazi mediatici che dovrebbero essere dati a un musicista della sua levatura. Comunque sarà, aloha ha fin da subito tutte le carte in regola per entrare nel cuore degli appassionati di genere e guadagnarsi lo status di disco rivelazione del 2020.

Il ragazzo sarà in tour in Europa questo aprile, anche se al momento non sono previste date in Italia. Peccato.


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