Dan Carey li ha scoperti nel 2022 e ancora una volta non si è sbagliato. Se i due EP Float e Lock Eyes and Collide, usciti per la sua Speedy Wunderground, hanno lasciato intravedere una band dal talento notevole ma ancora un po’ ingessata nei tipici stilemi del Post Punk (seppure nella loro versione più fantasiosa ed elaborata possibile), l’esordio sulla lunga distanza All in the Game, oltre a rischiare di finire diritto nella mia top ten di fine anno, ci mostra inedite ed interessanti vie di fuga da quello che è ormai divenuto un marchio di fabbrica stantio e ripetitivo.
South London e la “nuova onda” del Post Punk hanno rappresentato in questi ultimi anni un binomio trendy e ricco di fascino, con Dan Carey e la sua etichetta a svolgere un ruolo di primo piano nella selezione delle nuove proposte. Non a caso il gruppo si è trasferito qui da Falmouth, in Cornovaglia, dove si erano conosciuti ed avevano iniziato a fare musica.
In una scena dove, stando a quanto dice chi la frequenta, la fascinazione per le divagazioni ondivaghe del New Jazz avrebbe preso il posto delle chitarre abrasive e dei ritmi martellanti di Idles, Shame e affini, i Moreish Idols sono entrati da assoluti protagonisti e hanno cominciato a dare il loro importante contributo per farla evolvere.
Alla domanda su quali siano le loro influenze principali rispondono i Wilco e i Pavement, e già così sembra uno scherzo: poi però ascolti l’opener “Ambergrin”, capisci che potrebbe effettivamente averla scritta Jeff Tweedy e cominci a pensare che potrebbe esserci di più di quel che sembra. Ad ascoltare il singolo “Dream Pixel”, invece, ma anche la breve e conclusiva “Time’s Wasting”, dove spicca un solo di chitarra sporco e irriverente, viene in mente tutta la lezione preziosa dell’Indie Rock, dai pieni e vuoti dei Pixies allo scazzo Slacker dei Pavement (effettivamente), unitamente a una ricercata fantasia nelle parti strumentali che mette insieme le ritmiche Math degli Squid con le elucubrazioni acustiche di un certo Canterbury Sound (un paragone che non sono certo stato io il primo a far notare).
Insomma, se i due EP potevano lasciar presagire una certa insofferenza a seguire schemi prefissati (Lock Eyes and Collide, soprattutto, conteneva una dose maggiore di eclettismo) All in the Game offre il quadro di un gruppo che ha semplicemente deciso di lasciarsi andare: ascoltatevi “Out of Sight”, che si muove tra tempi dispari e intrecci di sax e chitarra, con sporadici inserti di pianoforte ed un generale feeling di impromptu, e capirete cosa intendo. Non a caso, quando il discorso torna ancora sul tema delle influenze, dicono che durante la registrazione del disco i Broken Social Scene sono stati un modello, per l’abilità che hanno di far convivere nella stessa canzone idee e suggestioni del tutto eterogenee; o ancora, la creatività a briglie sciolte di Revolver, evocato per spiegare il motivo per cui hanno iniziato a cantare tutti quanti, in modo da non dare punti di riferimento all’ascoltatore e trasmettere l’idea di una musica che non vuole dare niente per scontato.
Il sassofono di Dylan Humphreys, in tutto questo, svolge un ruolo ancora più importante di prima: è lui che fa da collante tra i momenti più “bucolici”, da Alt Folk in stile Prog (la title track, in questo senso, ricorda molto gli ultimi Black Country, New Road, “Sundog”, nel suo flusso di coscienza arpeggiato, sembra riprendere la lezione dei Caroline) e quelli dove la fascinazione del Post Punk, con quei suoni cupi e scarnificati, torna in primo piano (“Railway” è magnifica nel contrasto tra le ritmiche nervose di un break centrale più melodico, “Acid” è orientaleggiante e quasi psichedelica, “Slouch” contiene una parte strumentale pazzesca, dove vagano tutti apparentemente senza direzione: la bravura dei due chitarristi Jude Lilley e Tom Wilson Kellet è in questo caso abbastanza evidente).
Insomma, i Moreish Idols hanno dimostrato che il modo migliore per fare qualcosa di relativamente nuovo, di questi tempi, è avere un sacco di idee, il più possibili eterogenee tra loro, e mescolarle tutte assieme fregandosene della coerenza o dell’omogeneità di fondo. Potrebbe uscirne un casino cacofonico e senza senso; se però siete musicisti sufficientemente dotati e intelligenti, potreste anche fare il colpo della vita.
All in the Game non inventa nulla ma in qualche modo indica una strada, ed è senza dubbio uno dei migliori esordi degli ultimi anni.