Si è appena consumato il quarantennale dell’uscita del film Grease. Quarant’anni fa, era il 16 giugno del 1978, John Travolta e Olivia Newton-John fecero il pieno di spettatori un po’ ovunque rendendo quello che era stato uno degli spettacoli di maggiore successo a Broadway uno dei musical di riferimento di tutta la storia del cinema.
Ho rivisto Grease proprio qualche mese fa su Netflix (ero all’oscuro dell’imminente ricorrenza) e lo so che fa sorridere spendere dieci euro al mese per vedere un film come Grease ai tempi delle seguitissime e modernissime serie tv, considerando che lo vidi al cinema, appena uscito, con i miei compagni di classe e poi qualche altra decina di volte tra i miliardi di passaggi tv che ha avuto. Forse devo averne pure una copia in vhs senza contare che sicuramente si troverà completo in streaming da qualche parte, se non sullo stesso Youtube. Ma proprio la visione su una piattaforma così moderna come Netflix mi ha fatto riflettere su alcuni aspetti.
Intanto assistere nel 2017 un film del 1978 ambientato negli anni 50 causa un bel corto circuito filologico. Come re-interpreteremmo noi, così distanti dall’alba del rock’n’roll, gli usi e costumi del tempo? Chissà quanto correremmo il rischio di generalizzare e banalizzare un tema ora che è così distante e, soprattutto, ai tempi dell’Internet.
Notavo poi che protagonisti e comparse sembrano tutti quarantenni, per come erano conciati, mentre dovevano impersonare dei diciassettenni, questo perché oggi i diciassettenni li vediamo come dei bambinetti. Il fatto è che gli studenti protagonisti della Rydell High School sono interpretati da adulti, e non c’entra la presenza di pluri-ripetenti. Grease è del 78 e nel 78 John Travolta aveva 24 anni e Olivia Newton-John andava per i 30.
Non mi è potuto sfuggire poi quanto fumino tutti. A Danny, quando si dà allo sport per cercare di cambiare per Sandy, viene chiesto dall’insegnante di ginnastica di limitare il consumo a non più di due pacchetti al giorno. Sandy viene persino iniziata alle sigarette dalla Pink Ladies e in generale è un continuo inno al tabagismo. Sicuramente negli Stati Uniti e in quel periodo storico la sensibilità verso le malattie polmonari e cardiovascolari era diversa, ma oggi – a differenza degli anni 70 – un regista chiamato a dirigere un film di quel tipo troverebbe sicuramente un escamotage per non vedersi la pellicola boicottata dall’opinione pubblica.
Ancora a proposito di Danny alle prese con l’attività fisica, i giocatori della squadra di basket della scuola al completo – e poi anche quella di atletica – indossano le All Star. Oggi, ai tempi dell’attrezzatura super-tecnica rinforzata e molleggiata, pensare di fare anche solo una corsa con una suola di gomma piatta e così primitiva fa sorridere. Se la cosa sorprende anche voi, ma non credo, qui trovate la storia del celebre brand americano. Non solo. Oggi in cui il basket a stelle e strisce è uno sport in cui i bianchi sono rarissimi, è stato curioso seguire qualche azione senza i possenti giocatori afroamericani a cui siamo abituati che schiacciano come dei forsennati. D’altronde, negli anni 50 dubito che i neri potessero aspirare a un’istruzione come i coetanei bianchi, figuriamoci giocare in un campetto vero e proprio.
Non ricordavo, inoltre, che tra i film che i protagonisti vedono al drive-in viene mostrato anche il trailer della pellicola horror fantascientifica “Blob – Fluido mortale”, lo stesso che conosciamo perché utilizzato come sigla dell’omonimo programma di Raitre. E a proposito di citazioni cinematografiche, mi ha fatto piacere ritrovare Rizzo dopo che l’ultima volta in cui avevo visto l’attrice sul grande schermo aveva una vistosa benda da pirata in “Smoke”, che non mi stancherò mai di dire è il mio film preferito di tutti i tempi del mondo mondiale.
Tornando sulle minoranze, sono frequenti i cognomi italiani nel film, ci avevate fatto caso? Oltre alla già citata Betty Rizzo c’è Marty Maraschino, Cha Cha DiGregorio, Johnny Casino leader dei The Gamblers e nulla mi toglie dalla testa che lo stesso Danny Zuko sia vittima degli strascichi di una trascrizione approssimativa del cognome Zucco, subita da qualche suo avo italiano all’arrivo a Ellis Island.
Non avevo mai notato poi che l’officina in cui i Thunderbirds mettono a punto il “fulmine alla brillantina” si trova all’interno della Rydell High School. Se non ho letto male, i ragazzi, mentre ci lavorano, indossano una tuta con il nome della scuola e, verso la fine, vengono raggiunti da un annuncio all’interfono della preside. Ecco un nuovo spunto per apprezzare il sistema scolastico americano, oppure la Rydell High School dev’essere l’antesignano degli strampalati indirizzi che i licei italiani hanno oggi o dell’alternanza scuola-lavoro, per non parlare delle numerose occasioni per fare festa e l’opportunità di avere un luna park a disposizione degli studenti. Nella stessa scena dei meccanici all’opera non si possono non notare, quindi, i calzini bianchi di John Travolta a spezzare scarpe e pantaloni neri, un particolare comunque piuttosto ricorrente nel film.
Peccato poi che la meticolosità filologica con cui è stata preparata la colonna sonora sia parzialmente messa in discussione dalla presenza di alcuni brani che, con gli anni 50, c’entrano ben poco, e mi riferisco alla titletrack in stile disco-funky o al pezzo usato per la gara di ballo. E, a proposito di Vince Fontaine, il presentatore TV che fa il cascamorto con una delle studentesse, anche questa è una scena inammissibile in un film di questo tipo, se venisse prodotto nel 2018. La ragazza ammette poi anche di aver respinto un tentativo di Vince Fontaine di metterle “un’aspirina nella Coca Cola”. Ve lo immaginate ai nostri tempi, con tutta l’attenzione che c’è per la violenza sulle donne e sugli approcci sessuali degli adulti nei confronti delle ragazzine?
La grande domanda, infine, me la sono posta dopo la scena conclusiva: che ne è stato, poi, degli studenti neodiplomati della Rydell High School alla fine del film e delle coppie che, apparentemente felici, lasciano la giovinezza per affrontare insieme il futuro? Dovrò guardare il sequel, ma ho un po’ di paura a farlo.